L’assegno in favore del figlio è a carico del genitore collocatario e assegnatario della casa coniugale.
Così ha stabilito il 28 febbraio 2025 la quarta Sezione del Tribunale di Genova.
In un procedimento di separazione, il Tribunale di Genova in sede presidenziale prevedeva un regime di frequentazione paritetica del minore con ciascuno dei genitori, assegnava la casa coniugale - di esclusiva proprietà del marito - alla moglie e poneva a carico del padre, genitore non collocatario, un assegno a titolo di contributo al mantenimento per il figlio di € 100,00 mensile.
Esaurita la fase istruttoria avanti il giudice istruttore, in sede di conclusioni, entrambe le parti insistevano sull’assegnazione della casa coniugale.
Il Tribunale confermava la collocazione paritetica del figlio e l’assegnazione della casa alla moglie, ma revocava il contributo a titolo di mantenimento per il figlio inizialmente posto a carico del padre, ponendolo a carico della madre.
Tale decisione affronta due questioni:
la prima concernente la possibilità di assegnare la casa a uno dei due genitori anche nel caso di previsione di tempi di frequentazione paritetici con ciascuno di essi;
la seconda concerne la valutazione dell’assegnazione della casa familiare nella determinazione di un assegno di mantenimento in favore del figlio, da porre a carico di uno dei genitori.
Le soluzioni giuridiche.
L'assegnazione della casa familiare non viene automaticamente meno nel caso di previsione di tempi di frequentazione paritetici dei figli con ciascun genitore, essendo necessario tener conto dell'interesse del minore a non veder modificato il proprio habitat domestico (cfr. Cass. 24 febbraio 2023 n. 5738).
Sulla base di tale orientamento, il Tribunale di Genova ha confermato quanto già previsto con i provvedimenti provvisori circa l'assegnazione della casa coniugale - se pur di proprietà esclusiva del padre - alla madre, in quanto ritenuta maggiormente rispondente alle esigenze del minore, al quale deve essere evitata un'alterazione delle abitudini di vita, soprattutto nella delicata fase della disgregazione della famiglia.
L'assegnazione della casa deve, peraltro, essere considerata quale elemento utile ai fini della previsione di un assegno di mantenimento in favore del figlio da porre a carico di uno dei genitori. Entrambi i genitori devono, infatti, concorrere al mantenimento dei figli in proporzione alle proprie disponibilità economiche.
Un regime paritetico di frequentazioni del figlio con ciascun genitore non esclude, conseguentemente, la previsione di un assegno di mantenimento a carico del genitore che risulta avere una situazione economica migliore.
Partendo da tali premesse, il Tribunale di Genova ha valutato attentamente la situazione patrimoniale, considerando non solo le entrate e le uscite di ciascun coniuge, ma anche le implicazioni economiche derivanti dall'assegnazione della casa coniugale di proprietà esclusiva del marito e gravata da mutuo allo stesso intestato.
Nel caso di specie, il padre risultava avere entrate maggiori, ma parzialmente erose dal pagamento della locazione dell'immobile ove era andato ad abitare, del mutuo della casa già coniugale nonché dell'importo versato per la ricongiunzione dei contributi.
Il Tribunale ha, quindi, evidenziato che, con l'assegnazione della casa alla madre, il padre già concorreva a soddisfare le esigenze abitative del figlio e che, conseguentemente, non solo andava revocato l'assegno previsto a suo carico con i provvedimenti provvisori, ma – in un'ottica di riequilibrio - occorreva porre un contributo a carico della madre.
Osservazioni.
Entrambi i genitori devono concorrere al mantenimento dei figli in via diretta o indiretta in proporzione alle loro sostanze. Nella fase di disgregazione della famiglia, potrà essere previsto un assegno di mantenimento a carico di uno dei genitori, qualora risulti necessario riequilibrare la disparità reddituali dagli stessi, considerati gli oneri a carico di ciascuno di essi ed i tempi di permanenza con i figli.
Tale assegno dovrà ricomprendere non solo l'obbligo alimentare, ma anche l'aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario e sociale e tutto ciò che è necessario per la cura, l'assistenza e l'educazione dei figli. Il nostro ordinamento non prevede, peraltro, a differenza di altri, un criterio fisso e predeterminato per stabilire ex ante la quantificazione dell'assegno da porre a carico di un genitore. L'art. 337-ter 4° comma c.c. indica, quali parametri di riferimento le attuali esigenze del figlio, il tenore di vita dello stesso in costanza di convivenza con entrambi i genitori, i tempi di permanenza con ciascun genitore, le risorse economiche e la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore (cfr.Cass civ., 16 settembre 2020 n. 19299).
Tra i parametri va altresì considerata l'assegnazione della casa coniugale, in particolare nel caso in cui la stessa sia di proprietà esclusiva del genitore che se ne sia allontanato, tanto è vero che, in base all'art. 337-sexies c.c., di essa deve tenersi conto nella regolazione dei rapporti economici “tra i genitori”. La previsione di un contributo a titolo di assegno di mantenimento per il figlio dovrà, conseguentemente, essere preceduta da un'attenta valutazione di tutti gli elementi su indicati, dalla quale emerga la necessità di operare un riequilibrio dal punto di vista economico tra i genitori. Solitamente, detto contributo viene posto a carico del genitore non collocatario, ma nulla esclude che questi possa essere il beneficiario dell'erogazione.
L'unico parametro è quello dell'interesse del minore, il quale deve poter godere di un tenore di vita analogo quando si trova con ciascuno dei genitori. Se dunque, pur in regime di affidamento paritario, il giudice individui il genitore collocatario, cui assegnare la casa coniugale questi ben può essere onerato di contribuire ai bisogni del figlio. Alle medesime condivisibili conclusioni era del resto già pervenuta la giurisprudenza anche in mancanza di un regime paritario di permanenza del figlio presso i genitori, ma sulla base della discrepanza tra i redditi di ciascuno di essi (cfr. Trib. Milano 15 maggio 2015 ma anche Trib. Roma sez. I, 22 gennaio 2016).
Maltrattamenti contro familiari e conviventi.
Fonte: Cod. Pen Articolo 572 - Antonio Calaresu, Andrea Nocera, Cristina Cerrato.
In campo penale non esiste una definizione unitaria di violenza o di famiglia, concetti tra loro antiteci, atteso che la seconda dovrebbe rappresentare idealmente un potenziale luogo di protezione per i suoi membri ma spesso, come di recente accade, può diventare un ambiente pericoloso per l'integrità fisica e psichica dei soggetti che ne fanno parte.
Il rapporto affettivo, i legami stabili e la convivenza possono essere terreno fertile e occasione per la commissione di un reato, posto che la relazione di intimità esistente tra le parti le rende più vulnerabili ed esposte ad atti di violenza e sopraffazione in suo danno.
Per il legislatore del 1930 la famiglia era il perno fondamentale dell'ordinamento, strutturata gerarchicamente nella sottomissione al marito di moglie e figli. Il diritto italiano, ancorato ad una tradizionale concezione della famiglia quale “società naturale basata sul matrimonio” ai sensi dell'art. 29 Cost., è sempre stato restio a frapporsi nei contrasti intrafamiliari. La riforma del diritto di famiglia del 1975, con il riconoscimento, in attuazione del principio posto dall'art. 3 Cost., della pari dignità giuridica dei coniugi, l'introduzione del divorzio e i cambiamenti sociali intervenuti hanno determinato, una maggiore attenzione nei confronti degli episodi di violenza, anche morale, che si verificano all'interno della “famiglia”, non più intesa solo come quella fondata sul matrimonio.
Il bene giuridico tutelato.
Il codice Rocco ha collocato la fattispecie di reato tra i delitti contro l'assistenza familiare, mentre nel codice Zanardelli rientrava tra i delitti contro la persona. Ciò rende ancor più difficile, proprio per il mutato concetto di famiglia, l'individuazione del bene giuridico tutelato. L’attuale approdo della giurisprudenza di legittimità ritiene che l’interesse primario tutelato sia la salvaguardia della l'incolumità personale delle vittime, legate affettivamente o da uno stabile rapporto di convivenza, all’agente (Cass. pen., sez. VI , 25 settembre 2019, n. 47887, che accomuna, a fini cautelari, per la reiterazione delle condotte, i delitti di maltrattamenti e di atti persecutori resti della stessa specie che tutelano il medesimo bene giuridico). L’ampliamento delle relazioni tutelabili ha portato alla configurabilità del reato pur in assenza dei vincoli familiari tradizionali, ove la vittima versi in una posizione di debolezza a causa della supremazia esercitata da un soggetto convivente. Rispetto alla tutela dell'integrità fisica e morale, posta in pericolo o lesa da condotte violente nell’intimità dei rapporti affettivi e familiari, specificamente indicate nella norma, che si connotano, nella voluta labilità dei concetti, per la loro naturale esposizione al pericolo delle persone, per il legislatore, è recessivo l'interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia in sè considerata. Come di seguito descritto, la norma sanziona una pluralità di condotte violente che si realizzano all'interno di una serie di situazioni e rapporti diversi ed eterogenei; ecco perché l'oggetto della tutela non può essere limitata alla famiglia nel senso tradizionale, ma deve essere esteso alla dignità personale dei soggetti passivi o anche alla tollerabilità della convivenza.
In evidenza.
Il reato di maltrattamenti in famiglia tutela non solo l'interesse dello Stato alla salvaguardia delle relazioni familiari, ma anche e soprattutto l'integrità psicofisica dei suoi membri.
ll soggetto attivo.
Sebbene la norma si riferisca al soggetto attivo con il termine “chiunque”, si tratta, per costruzione della fattispecie incriminatrice, di un reato proprio, che può essere commesso solo da determinate persone in possesso di determinate qualifiche o di uno status, di volta in volta precisati dalla norma: il soggetto agente deve essere legato alla vittima da un rapporto famigliare oppure essere comunque investito di un'autorità nei suoi confronti oppure trovarsi in una di quelle situazioni di affidamento (per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia o per l'esercizio di una professione o di un'arte) espressamente previste dalla norma.
La norma assume a presupposto diverse tipologie di relazione. Il punto più discusso riguarda la qualificazione di “persona di famiglia” perché implica il concetto di “famiglia”, accolto dal legislatore in modo mutevole nel corso degli anni, come emerge dal richiamato spostamento del focus sul bene giuridico. Si è passati, infatti, da una concezione tradizionale di famiglia, restrittiva, che faceva riferimento all'ambito dei rapporti tra consanguinei, affini, adottanti e adottati, ad una più moderna, che accoglie una nozione allargata, in cui rientrano una serie di rapporti, non solo di affinità o parentela, ma più in generale domestici, purché caratterizzati da una situazione di convivenza stabile tra soggetto agente e vittima. In proposito, Cass. pen. sez. VI, 15 gennaio 2020 n. 8145, ha affermato che la condotta penalmente sanzionata dal reato di maltrattamenti in famiglia non richiede la mera esistenza di un rapporto parentale tra l'autore della condotta e la persona offesa, occorrendo l'effettiva convivenza o, quanto meno, rapporti di reciproca assistenza morale ed affettiva, sicchè il reato non è configurabile ove risulti la definitiva disgregazione dell'originario nucleo familiare. Nel caso di specie, la Corte ha escluso la configurabilità del reato nell'ipotesi in cui l'imputato, figlio e fratello delle persone offese, aveva interrotto con queste qualsivoglia rapporto familiare, non potendo integrare il requisito della convivenza la mera condivisione di parti comuni dell'edificio all'interno del quale ciascuno disponeva di un autonomo appartamento. In conseguenza dell'accoglimento di un concetto allargato di famiglia si è ritenuto che il reato sia configurabile anche se commesso dal convivente more uxorio (Cass. pen., sez. II, 23 gennaio 2019, n.10222, che ha limitato la configurabilità del reato alle sole condotte tenute fino a quando la convivenza non sia cessata, mentre le azioni violente o persecutorie compiute in epoca successiva possono integrare il delitto di atti persecutori), o di coniuge separato in via giudiziale (Cass. pen., sez. VI, 30 settembre 2022, n. 45400; Cass. pen., sez. VI, 17 novembre 2021, n.45095).
Nel primo caso la Corte ha ritenuto integrare il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di atti persecutori, le condotte vessatorie nei confronti del coniuge che, sorte in ambito domestico, proseguano dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, in quanto il coniuge resta "persona della famiglia" fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza. Con tale arresto, la Corte ha precisato che la separazione non elide lo status acquisito con il matrimonio, dispensando dagli obblighi di convivenza e fedeltà, ma lasciando integri quelli di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale, e collaborazione, che discendono dall'art. 143, comma 2, c.c. Analogamente si è ritenuto configurabile il reato di maltrattamenti in situazione di condivisa genitorialità, anche in assenza di convivenza, a condizione che la filiazione non sia stata un evento meramente occasionale ma si sia quantomeno instaurata una relazione sentimentale, ancorché non più attuale, tale da ingenerare l'aspettativa di un vincolo di solidarietà personale, autonomo rispetto ai doveri connessi alla filiazione (Cass. pen. sez. VI 25 giugno 2019 n. 37628). Il vincolo di solidarietà tra i soggetti prescinde dalla durata del rapporto. (Cass. pen., sez. VI, 11 febbraio 2021, n. 17888, secondo cui è configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia anche in presenza di un rapporto di convivenza di breve durata, instabile e anomalo, purché sia sorta una prospettiva di stabilità e un'attesa di reciproca solidarietà.
Deve, purtuttavia, sussistere fra l'autore del reato e la persona offesa strette relazioni dalle quali dovrebbero derivare rispetto e solidarietà e che, invece, diventano la precondizione per realizzare le condotte maltrattanti). In senso conforme, Cass. pen. sez. VI, 18 ottobre 2023, n. 46797, che, con riguardo ai reati di violenza domestica e contro le donne, richiama l'osservanza degli obblighi di matrice sovranazionale, con particolare riguardo alla corretta valutazione e gestione dei rischi di letalità, di gravità della situazione, di reiterazione di comportamenti violenti, come previsto dall'art. 51 della Convenzione di Istanbul dell'11 maggio 2011, ratificata con legge 26 giugno 2013, n. 77, in un'ottica di prioritaria sicurezza delle vittime o persone in pericolo, che non può essere affidata alla iniziativa delle stesse. In senso opposto, con altra pronuncia (Cass. pen. sez. VI, 30 marzo 2023, n.31390), la Corte, proprio sulla base dei discussi rapporti di interferenza tra il reato in esame e quello di atti persecutori, afferma, per il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici, che i concetti di "famiglia" e di "convivenza" di cui all'art. 572 c.p. devono essere intesi nell'accezione più ristretta, quale comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza di affetti implicante reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorché non necessariamente continuativa. Da ciò ha ritenuto configurabile l'ipotesi aggravata di atti persecutori di cui all'art. 612-bis, comma secondo, c.p., e non il reato di maltrattamenti in famiglia, quando le reiterate condotte moleste e vessatorie siano perpetrate dall'imputato dopo la cessazione della convivenza more uxorio con la persona offesa.
La condotta.
La fattispecie base è descritta dalla norma con il verbo “maltrattare” che indica una condotta ripetuta nel tempo. Il verbo “maltrattare “comprende qualsiasi tipo di condotta di sopraffazione sistematica dell'altro, volta a porre il soggetto passivo in condizioni di sofferenza ed umiliazione costante, tali da rendere intollerabile la convivenza. Tale effetto può derivare anche da un clima generato all'interno di una comunità familiare ristretta, pur se non riconducibile a comportamenti specifici in sé violenti o di minaccia nei confronti di un determinato soggetto passivo. Si tratta di un reato a forma libera che può manifestarsi nelle forme e nei contesti più diversi. La condotta di maltrattamenti può assumere i significati più vari: può consistere in comportamenti violenti (per esempio il soggetto che percuote il coniuge o il partner) ma anche in aggressioni verbali o di tipo “morale”. Per la configurabilità dl reato anche in caso di reciprocità di condotte vessatorie, Cass. pen., sez. VI, 21 gennaio 2020, n. 11777, nel caso in cui le condotte violente e vessatorie siano poste in essere dai familiari in danno reciproco gli uni degli altri, ove la Corte ha precisato che il reato di cui all'art.572 c.p. non prevede il ricorso a forme di sostanziale autotutela, mediante un regime di "compensazione" fra condotte penalmente rilevanti e reciprocamente poste in essere. Il reato è integrato da comportamenti reiterati, ancorché non sistematici, che, valutati complessivamente, siano volti a ledere, con violenza fisica o psicologica, la dignità e identità della persona offesa, limitandone la sfera di autodeterminazione (Cass. pen. sez. VI, 03 luglio 2023 n. 37978, in cui la Corte ha annullato agli effetti civili la sentenza che aveva ritenuto la condotta sopraffattrice unilateralmente tenuta dall'imputato ai danni della convivente "more uxorio" come espressiva di ordinaria "litigiosità di coppia", mentre essa presuppone invece che le parti della relazione si confrontino, anche veementemente, ma su un piano paritetico, di reciproca accettazione del diritto di ciascuno ad esprimere il proprio punto di vista). Tuttavia, si è ritenuto configurato il reato anche in presenza di condotte omissive (Cass. pen. sez. VI, 24 gennaio 2024, n. 8617, in un caso in cui il genitore non aveva provveduto ad assicurare al minore, specie se in tenera età, tutte quelle condotte di cura, assistenza e protezione a fronte di esigenze cui il figlio stesso non può altrimenti provvedere, nel caso di specie consistente nell'accertato abituale deficit di accudimento dei figli minori dovuto all'abuso di sostanze alcoliche da parte della madre).
Sotto il diverso profilo della fattispecie aggravata, Cass. pen., sez. VI, 25 ottobre 2018, n. 2003/2019 ha ritenuto, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante dell'essere stato il delitto commesso alla presenza del minore, prevista dall'art. 61, n. 11-quinquies, c.p., che non è necessario che gli atti di violenza posti in essere alla presenza del minore rivestano il carattere dell'abitualità, essendo sufficiente che egli assista ad uno dei fatti che si inseriscono nella condotta costituente reato. È comunque, un reato necessariamente abituale che può essere commesso con la reiterazione tanto di azioni quanto di omissioni che, prese di per sé, possono anche non costituire reato (Cass. pen., sez. VI,16 gennaio 2019, n. 7139, ove si fa riferimento a “comportamenti di reiterata sopraffazione”). L'abitualità incide anche sul momento consumativo e sulla competenza. Cass. pen., sez. VI, 26 marzo 2019, n. 24206 ha ritenuto che, stante la natura di reato abituale, la competenza per territorio si radica innanzi al giudice del luogo di realizzazione dell'ultimo dei molteplici fatti caratterizzanti il reato . In altra pronuncia, per il reato di maltrattamenti in famiglia, la competenza per territorio, stante la natura di reato abituale, si è intesa radicata innanzi al giudice del luogo in cui l'azione diviene complessivamente riconoscibile e qualificabile come maltrattamento e, quindi, nel luogo in cui la condotta venga consumata all'atto di presentazione della denuncia. Cass. pen. sez. F, 13 agosto 2019, n. 36132). Il reato di maltrattamenti, in quanto reato abituale, si consuma nel momento in cui ha luogo la cessazione della condotta, sicché eventuali modifiche del regime sanzionatorio trovano applicazione anche se intervenute dopo l'inizio della consumazione, ma prima della cessazione della abitualità. (Cass. pen., sez. VI, 03 dicembre 2020, n.2979/2021). Il reato è, come detto, costruito in forma commissiva, vista la semantica del termine “maltratta”. Essendo reato a condotta plurima, necessariamente reiterata nel tempo, non sono sufficienti ad integrare la condotta tipica singoli o sporadici episodi occasionali di violenza, in quanto i plurimi atti che integrano l'elemento materiale del reato devono essere collegati tra loro da un nesso di abitualità e devono essere avvinti nel loro svolgimento da un'unica intenzione criminosa, quella appunto di avvilire o svilire la personalità della vittima. Per la configurabilità del reato non occorrono necessariamente manifestazioni di violenza fisica, potendosi concretare gli episodi lesivi anche in condotte vessatorie, prevaricatrici, mortificanti dell'umana dignità che, anche se valutate isolatamente non particolarmente lesive, assumono una complessiva rilevante offensività con riguardo alla libertà morale della vittima per il loro carattere abituale e la loro ripetitività nel tempo, tali da determinare un sistema di vita penoso e mortificante, teso all'annientamento psicologico della vittima. (Cass. pen., sez. III, 19 settembre 2012, n. 35805); viceversa non integra il reato un comportamento che, per quanto fastidioso, valutato in maniera oggettiva non vada oltre l'attitudine a provocare una mera reazione di stizza da parte del soggetto passivo (Cass. pen., sez. VI, 11 luglio 2013, n. 34197), come nel caso di episodici atti lesivi di diritti fondamentali della persona non inquadrabili in una cornice unitaria caratterizzata dall'imposizione ai soggetti passivi di un regime di vita oggettivamente vessatorio (Cass. pen., sez. VI, 02 dicembre 2010, n. 45037). Integra, inoltre, il delitto maltrattamenti in famiglia, oltre che l'esercizio reiterato di minacce e restrizioni della libertà di movimento di una donna componente del gruppo familiare, anche la sostanziale privazione della sua funzione genitoriale, realizzata mediante l'avocazione delle scelte economiche, organizzative ed educative relative ai figli minori e lo svilimento, ai loro occhi, della sua figura morale (Cass. pen., sez. V, 25 marzo 2019, n.21133). Ciò che rileva è, dunque, l'abitualità della condotta di sopraffazione, ovvero la reiterazione della stessa in un determinato arco temporale di convivenza.
Tale situazione può in concreto configurare una ipotesi di flagranza, che giustifichi l'arresto dell'agente. In concreto, è stato ritenuto configurabile lo stato di flagranza del reato di maltrattamenti in famiglia allorchè il singolo episodio lesivo non risulti isolato, ma si ponga inequivocabilmente in una situazione di continuità rispetto a comportamenti di reiterata sopraffazione direttamente percepiti dagli operanti.( Cass. pen., sez. VI, 16 gennaio 2019 n. 7139, fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che correttamente era stata desunta la flagranza del reato sulla base della constatazione da parte delle forze dell'ordine delle condizioni dell'abitazione, delle modalità con le quali era stato richiesto l'intervento d'urgenza, delle condizioni soggettive della persona offesa, costretta a rifugiarsi presso una vicina per sottrarsi all'aggressione del figlio il quale, anche alla presenza degli agenti, non aveva esitato ad inveire contro la madre, ingiuriandola con epiteti vari). Tuttavia, quanto al requisito dell'abitualità, la giurisprudenza ha ritenuto che il comportamento del soggetto agente non debba necessariamente persistere in maniera costante, essendo ravvisabile il reato anche nell'ipotesi in cui vi siano periodi intermittenti in cui l'autore del reato non ponga in essere comportamenti aggressivi o lesivi della vittima (Cass. pen., sez. VI, 19 giugno 2014, n. 47896; Cass. pen., sez.VI, 18 marzo 2014, n. 31121). Così si è ritenuto integrare gli estremi del reato la condotta di chi infligge abitualmente vessazioni e sofferenze, fisiche o morali, a un'altra persona, che ne rimane succube, imponendole un regime di vita persecutorio e umiliante, che non ricorre qualora le violenze, le offese e le umiliazioni siano reciproche, con un grado di gravità e intensità equivalenti (Cass. pen., sez. VI, 23 gennaio 2019, n. 4935). La violenza assistita La violenza assistita intrafamiliare è una forma di maltrattamento, oggi configurato come ipotesi aggravata (comma 2, come modificato dall'art. 4, della l. 1 ottobre 2012, n. 172, che ha recepito nel testo anche l'alternativa ipotesi di aggravante del reato commesso in danno di minore),che consiste nell'obbligare il minore ad assistere ad atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale consumata all'interno della famiglia su figure di riferimento o su persone a lui affettivamente legate. infine, deve darsi atto che la legge 19 luglio 2019 n. 69 ha inserito un ultimo comma all'art. 572 c.p. (introdotto dall'art. 9 comma 2 lett. c) della citata legge) che qualifica il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti come persona offesa dal reato. L'intervento normativo ha recepito l'orientamento giurisprudenziale che riteneva integrato l'originario reato di maltrattamenti in danno dei figli minori anche da condotte di reiterata violenza fisica o psicologica nei confronti dell'altro genitore o di fratelli o sorelle del minore, quando questo sia reso sistematico spettatore obbligato di tali comportamenti. La ratio dell'aggravamento sanzionatorio è individuata, in quanto tale atteggiamento integra anche una omissione connotata da deliberata e consapevole indifferenza e trascuratezza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali della prole. In particolare, Cass. pen., sez. VI, 22 settembre 2020, n. 27901, ha ritenuto configurabile il reato di maltrattamenti nei confronti di un infante che assista alle condotte maltrattanti poste in essere in danno di altri componenti della sua famiglia, a condizione che tali condotte siano idonee ad incidere sull'equilibrio psicofisico dello stesso.
Nella specie, i genitori avevano fatto assistere reiteratamente una bambina dell'età di un anno agli atti di violenza e minaccia posti in essere nei confronti dei fratelli; Cass. pen., sez. VI, 10 maggio 2022, n. 21087, ha ritenuto configurabile l'aggravante del reato di maltrattamenti in famiglia nei confronti di un infante che assista alle condotte maltrattanti poste in essere in danno di altri componenti della sua famiglia, a condizione che tali condotte siano idonee ad incidere sull'equilibrio psicofisico dello stesso. Nel caso di specie, tuttavia, la Corte ha escluso l'aggravante ritenendo che la età di soli tre mesi dell'infante non gli consentisse di percepire il contesto ambientale e le condotte maltrattanti. Cass. pen., sez. VI, 05 ottobre 2023, n. 47121, invece, ha ritenuto configurabile la fattispecie aggravata della c.d. "violenza assistita", a prescindere dall'età del minorenne, purché il numero, la qualità e la ricorrenza degli episodi cui questi assiste siano tali da lasciare inferire il rischio della compromissione del suo normale sviluppo psico-fisico). Cass. pen., sez. VI, 11 ottobre 2023, n. 44335, ha, infine, affermato ex art. 2 c.p., che, qualora alcune delle condotte vessatorie siano state poste in essere prima dell'entrata in vigore della legge 19 luglio 2019, n. 69, ed altre in epoca successiva, e solo le prime siano state perpetrate al cospetto di un minore, non trova applicazione la circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all'art. 572, comma 2, c.p., introdotta da tale legge, ma quella, previgente, di cui all'art. 61, comma primo, n. 11-quinquies, c.p.La relazione tra l'agente e la vittima Adeguandosi al mutamento del contesto socio-culturale, la giurisprudenza ha notevolmente esteso il concetto di famiglia con una interpretazione più coerente con la società attuale. I giudici di legittimità hanno garantito l'applicazione della norma de qua anche ai maltrattamenti avvenuti in ambiti che nulla hanno a che vedere con il concetto tradizionale della famiglia, purché sia comunque ravvisabile una comunione di affetti analoga a quella che emerge normalmente nel matrimonio. La tutela penalistica disposta dall'art. 572 c.p. è stata, dunque, riconosciuta, sulla base dell'applicazione dell'art. 2 Cost. nella parte in cui fa riferimento alle “formazioni sociali ove si svolge la personalità” del singolo individuo, anche nell'ambito della cosiddetta famiglia di fatto e del reato commesso dal convivente more uxorio (Cass. pen., sez. II, 23 gennaio 2019, n.10222, cit., quanto alle condotte tenute fino al perdurare della convivenza, atteso che le azioni violente o persecutorie compiute in epoca successiva possono al più integrare il delitto di atti persecutori). Ciò che rileva è la volontà di vivere insieme, di avere figli, di avere beni comuni, di dar vita, cioè, ad un nucleo stabile e duraturo, senza che sia necessario che il rapporto abbia una certa durata, quanto piuttosto che sia istituita in una prospettiva di stabilità, quale che sia stato poi in concreto l'esito di tale comune decisione. Alla luce di quanto sopra, si è ritenuto sussista una pluralità di reati, eventualmente unificati dalla continuazione, nel caso di maltrattamenti in famiglia posti in essere nei confronti di più soggetti passivi, atteso che l'interesse protetto dal reato di cui all'art. 572 c.p. è la personalità del singolo in relazione al rapporto che lo unisce al soggetto attivo. Cass. pen., sez. VI, 18 settembre 2020 n. 29542). Del pari, il reato è stato ritenuto configurabile nell'ambito di una relazione extraconiugale (Cass. pen., sez. VI, 10 febbraio 2011, n. 7929, con riferimento al caso in cui l'indagato aveva maltrattato la propria amante, cagionandole volontariamente lesioni gravi. ove tra i due soggetti si sia ormai instaurata una relazione stabile tale da determinare reciproci obblighi di solidarietà ed assistenza, nonostante l'agente convivesse ancora con la moglie).
Tuttavia, la più recente giurisprudenza ha ritenuto che, in tema di maltrattamenti in famiglia, non è configurabile una relazione assimilabile a quella familiare nel caso di due persone che, coltivando una relazione clandestina, utilizzino un appartamento esclusivamente quale base dei loro incontri (Cass. pen., sez. VI, 21 ottobre 2020, n. 34086). In tema di unioni civili si è affermato che, ai fini della configurabilità del delitto, è sufficiente la dichiarazione anagrafica resa dall'imputato e dalla vittima ai sensi dell'art. 1, comma 37, legge 20 maggio 2016, n. 76, contenente la regolamentazione delle unioni civili e la disciplina delle convivenze, esimendo il giudice da ogni ulteriore accertamento in ordine alla sussistenza di un rapporto di convivenza caratterizzato dalla stabilità e dalla mutua solidarietà, spettando, di contro, all'imputato, che neghi tale circostanza, fornire la prova contraria (Cass. pen., sez. III, 18 ottobre 2018, n. 56673). ai componenti della coppia omosessuale spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia ottenendone il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri – ad esclusione di quello del matrimonio – e con la ragionevole pretesa di una omogeneizzazione del trattamento giuridico a tutela di determinate situazioni, quale potrebbe essere la tutela della violenza all'interno delle mura domestiche. (C. Cost. 15 aprile 2010, n. 138; CEDU 24 giugno 2010, n. 30141/2004, causa Scalk e Kopf c Austria; Cass. civ., sez. I, 15 marzo 2012, n. 4184). Tuttavia, non è configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia, bensì l'ipotesi aggravata del reato di atti persecutori, in presenza di condotte illecite poste in essere da parte di uno dei componenti di una unione di fatto ai danni dell'altro, quando sia cessata la convivenza e siano conseguentemente venute meno la comunanza di vita e di affetti nonché il rapporto di reciproco affidamento. (Cass. pen., sez. VI, 06 settembre 2021, n. 39532). Infine, nell'ambito del rapporto di lavoro, a condizione che sussista la c.d. parafamiliarità, ovvero la sottoposizione della vittima de relato all'autorità dell'altro in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita condivise, assimilabili a quelle delle comunità familiari (Cass. pen., sez. VI, 11 aprile 2014, n. 24057; Cass. pen., sez. VI, 8 aprile 2014, n. 18832; Cass. pen., sez. VI, 5 marzo 2014, n. 13088). Negli stessi termini si è ritenuto configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia, anche quando le condotte siano realizzate nell'ambito di una situazione di parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all'autorità di un'altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie delle comunità familiari, nonché di affidamento, fiducia e soggezione del sottoposto rispetto all'azione di chi ha la posizione di supremazia (Cass. pen., sez. III, 04 febbraio 2021, n. 1381, (Fattispecie relativa alla condotta posta in essere dalla guida spirituale di una comunità pseudoreligiosa nei confronti degli "adepti"). La convivenza Secondo l'attuale formulazione all'art. 572 c.p. viene stabilito che il soggetto passivo deve essere «una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte». Il fatto che l'art. 572 c.p. preveda che il soggetto passivo e vittima dei soprusi siano “comunque conviventi” sembrerebbe impedire – esclusa la sussistenza di un rapporto di autorità o di un affidamento per le ragioni esposte nella norma – di ritenere configurato il reato in esame nel caso in cui non sussista una comunanza di tetto. In realtà, la formula normativa ritiene configurabile il reato ai danni di “una persona della famiglia o “ comunque convivente”; l'introduzione della seconda locuzione è stata interpretata nel senso di estendere l'applicabilità dell'art. 572 c.p. anche a soggetti uniti all'autore del reato da rapporti diversi e distanti da quelli famigliari che però siano (se non membri della famiglia) conviventi. Nella specie si è ritenuto che, ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, integra il requisito della convivenza soltanto la coabitazione tra individui legati da una relazione fondata su aspettative di mutuo, duraturo affetto e di reciproca solidarietà, non già la mera e contingente condivisione di spazi abitativi, priva di connotati affettivi e solidali, dovuta a ragioni di mera amicizia. (In Cass. pen., sez. VI, 20 febbraio 2024 n. 1062, in cui la Corte ha annullato la condanna per il reato di cui all'art. 572 c.p. nei confronti di colui che, insediatosi nell'abitazione di un'amica con la quale non intercorreva alcuna relazione sentimentale, né di mutua solidarietà, aveva reagito con condotte minacciose e violente alla richiesta di lasciare la casa).
La giurisprudenza ha dunque chiarito che il delitto di maltrattamenti presuppone la convivenza solo se è diretto nei confronti di persona che non siano familiari; la coabitazione invece non è richiesta, se con la vittima degli abusi vi sia un rapporto familiare anche di mero fatto, desumibile dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza (Cass. pen., sez. VI, 27 maggio 2013, n. 22915; Cass. pen., 19 gennaio 2010, n. 924). Tuttavia, nel caso di condotta posta in essere da coniuge separato in via giudiziale (Cass. pen., sez. VI, 30 settembre 2022,n. 45400; Cass. pen., sez.VI, 03 novembre 2020, n. 37077), si è ritenuto integrare il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di atti persecutori, le condotte vessatorie nei confronti del coniuge che, sorte in ambito domestico, proseguano dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, in quanto il coniuge resta "persona della famiglia" fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza. Con la sentenza n. 45400/2020, la Corte ha precisato che la separazione non elide lo status acquisito con il matrimonio, dispensando dagli obblighi affettivi, di convivenza e fedeltà, ma lasciando integri quelli solidaristici, di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale, e collaborazione, che discendono dall'art. 143, comma 2, c.c., assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale. L'elemento soggettivo del reato La mera pluralità di episodi vessatori, quali percosse, ingiurie o minacce non è di per sé sufficiente a integrare il reato, qualora manchi un dolo in grado di abbracciare le diverse azioni ed unire i vari episodi di aggressione alla sfera morale e psichica del soggetto passivo. Trattandosi di reato abituale, e non di reato continuato, non è richiesto, per la configurabilità del reato l'esistenza di uno specifico programma criminoso di cui le singole condotte siano espressione (Cass. pen., sez. VI, 19 marzo 2014, n. 15146), essendo, invece, sufficiente il dolo generico, consistente nella sola consapevolezza dell'autore del reato di persistere in un'attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima (Cass. pen., sez.I, 28 gennaio 2020, n. 13013). L'elemento soggettivo doloso infatti non implica l'intenzione di sottoporre la vittima, in modo continuo e abituale, ad una serie di sofferenze fisiche e morali, ma solo la consapevolezza dell'agente di persistere in un'attività vessatoria (Cass. pen., n.1508/2019). Nè l'autore del reato può invocare, a propria discolpa, l'inesigibilità di un comportamento diverso da quello tenuto siccome coartato dalla volontà di altri, che abbia imposto un proprio modello culturale improntato ad autoritarismo maschilista, in quanto il principio della non esigibilità non trova applicazione al di là delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate. (Cass. pen., sez. V, 25 marzo 2019, n. 21133).
Analogamente si è affermato che lo straniero imputato di un delitto contro la persona o contro la famiglia non può invocare, neppure in forma putativa, la scriminante dell'esercizio di un diritto correlata a facoltà asseritamente riconosciute dall'ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incompatibile con le regole dell'ordinamento italiano, in cui l'agente ha scelto di vivere, attesa l'esigenza di valorizzare - in linea con l'art. 3 Cost. - la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l'instaurazione di una società civile multietnica (Cass. pen., n. 8986/2020, fattispecie, in tema di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali, di lamentata non considerazione di particolari connotazioni culturali e religiose proprie dell'imputato).
L'abitualità rende incompatibile con il reato l'attenuante della provocazione, essendo il reato connotato, dalla reiterazione nel tempo di comportamenti antigiuridici. (Cass. pen., sez. VI, 05 febbraio 2020, n. 13562, fattispecie in cui è stata esclusa tale attenuante, in quanto invocata solo in relazione all'ultimo episodio di lesioni personali che si inseriva in una condotta di maltrattamenti protrattasi per anni).
Procedibilità.
Il reato di maltrattamenti è procedibile d'ufficio; ciò è di particolare importanza alla luce di tre osservazioni. Per la sua struttura di reato abituale il delitto di maltrattamenti si perfeziona attraverso la commissione di condotte alcune delle quali sono già di per sé reato; alcune di queste ipotesi (ingiurie, minacce non gravi, lesioni lievi) sono procedibili a querela. Ma alla luce dell'assorbimento nel più grave delitto di maltrattamenti, tali condotte vengono perseguite anche se non è stata proposta formale querela. La procedibilità d'ufficio esprime la valutazione dell'ordinamento che, riscontrata l'estrema gravità del reato (e della preoccupante vastità del fenomeno sottostante, i maltrattamenti sono il delitto più frequente nei reati espressione di violenza di genere) non considera ostativa alla perseguibilità del reo una eventuale volontà contraria della vittima; ciò, tra l'altro, anche per esigenze di tutela di quella vittima.ù L'ultima importante conseguenza della procedibilità d'ufficio è che essa, quando il reato di maltrattamenti è connesso agli altri due delitti espressione della violenza di genere, violenza sessuale ed atti persecutori, questi ultimi diventano procedibili d'ufficio. In particolare, Cass. pen., sez. III, 26 maggio 2021, n. 36323 ha affermato, in tema di reati contro la libertà sessuale, che l'estensione del regime della procedibilità d'ufficio ex art. 609-septies, comma 4, n. 4, c.p. ai delitti connessi con altri per cui sia prevista tale forma di procedibilità opera anche qualora l'accertamento del fatto integrante il delitto procedibile d'ufficio sia avvenuto ai soli effetti civili, non potendosene, in tal caso, escludere la rilevanza giuridica per ogni effetto diverso dalla punizione del responsabile (conf., Cass. pen., sez. III, 08 ottobre 2019, n. 8963/2020. Per le medesime ragioni attrattive, Cass. pen, sez.VI, 22 febbraio 2024 n. 9849 ha ritenuto il reato di lesioni personali, quando commesso in occasione del delitto di maltrattamenti verso familiari, perseguibile d'ufficio anche in caso di lesioni lievissime e - oggi, con l'entrata in vigore dell'art. 2, comma 1, lett. b), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 - financo di lesioni lievi, per effetto del richiamo operato dall'art. 582, comma 2, c.p. all'art. 585 e di quest'ultimo, a sua volta, all'art. 576, comma 1, n. 5, c.p.
Rapporti con altri reati.
Per la sua struttura di reato abituale proprio e per il bene giuridico tutelato (reato contro la famiglia), il delitto di maltrattamenti assorbe i delitti di ingiurie (art. 594 c.p.), percosse (art. 581 c.p.), violenza privata (art. 610 c.p.), molestie (art. 660 c.p.). Si tratta infatti di condotte che, se reiterate, integrano la materialità del delitto di maltrattamenti, ossia la condotta tipica maltrattante, idonea per la sua abitualità a cagionare l'evento: l'assoggettamento della vittima ad un regime di vita caratterizzato da sofferenza, umiliazione ed aggressioni alla sua integrità fisica, psichica e morale. Quanto al reato di lesioni personali, tuttavia, Cass. pen., sez. VI, 22 aprile 2022, n. 17872 ha ritenuto configurabile il concorso formale - e non l'assorbimento - tra le fattispecie incriminatrici previste dagli artt. 572 e 582 c.p. quando le lesioni risultano consumate in occasione della commissione del delitto di maltrattamenti, con conseguente sussistenza dell'aggravante dell'art. 576, comma 1, n. 5, c.p.: in tal caso, infatti, non ricorre l'ipotesi del reato complesso, per la cui configurabilità non è sufficiente che le particolari modalità di realizzazione in concreto del fatto tipico determinino un'occasionale convergenza di più norme e, quindi, un concorso di reati, ma è necessario che sia la legge a prevedere un reato come elemento costitutivo o circostanza aggravante di un altro. Non c'è assorbimento, ma al contrario concorso di reati, con i delitti di danneggiamento (art. 635 c.p.), estorsione (art. 629 c.p., vedi Cass. pen., sez. II, 01 luglio 2020, n. 28327), abbandono di minori o incapaci (art. 591 c.p.), sequestro di persona (605 c.p., cfr. Cass. pen., sez. V, 12 ottobre 2020,n. 34504, che esclude il concorso quando la condotta di sopraffazione che privi la vittima della libertà personale non si esaurisce nella abituale coercizione fisica e psicologica, ma ne costituisce un picco esponenziale dotato di autonoma valenza e carico di ulteriore disvalore, idoneo a produrre, per un tempo apprezzabile, un'arbitraria compressione, pur non assoluta, della libertà di movimento della persona offesa. (come nel caso di un regime familiare improntato alla costante e continua prevaricazione e violenza del marito nei confronti della moglie, che veniva bloccata a letto per alcune ore con le manette ai polsi), di violenza sessuale (art. 609-bis c.p., con il quale è prevista una ipotesi di connessione ai fini del regime di procedibilità; cfr. Cass. pen., sez. III, 23 settembre 2020, n. 35700, che ritiene il delitto di maltrattamenti assorbito da quello di violenza sessuale soltanto quando vi è piena coincidenza tra le condotte, nel senso che gli atti lesivi siano finalizzati esclusivamente alla realizzazione della violenza sessuale e siano strumentali alla stessa, mentre vi è concorso tra i due reati in caso di autonomia anche parziale delle condotte, comprendenti anche atti ripetuti di percosse gratuite e ingiurie non circoscritte alla violenza o alla minaccia strumentale necessaria alla realizzazione della violenza). Il reato di maltrattamenti in famiglia assorbe il delitto di cui all'art. 612 c.p. a condizione che le minacce rivolte alla persona offesa non siano frutto di un'autonoma ed indipendente condotta criminosa, ma costituiscano una delle condotte mediante le quali si realizza il reato di maltrattamenti. (Cass. pen., sez. VI, 25 febbraio 2021, n. 17599). Non c'è concorso, né assorbimento, ma radicale incompatibilità, con il delitto di abuso dei mezzi di correzione (art. 571 c.p.); se l'agire del reo è motivato dall'esclusivo fine di esercitare illegittimamente lo ius corrigendi (reato a dolo specifico, contrariamente al delitto di maltrattamenti, caratterizzato da dolo generico), l'applicazione in concreto della norma penale incriminatrice prevista dall'art. 571 c.p. esclude quella del delitto di maltrattamenti. Come d'altronde recita l'incipit dell'art. 572 c.p. «Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona……». Quanto ai rapporti con il reato di violenza privata, è configurabile il concorso materiale nel caso in cui i maltrattamenti non abbiano cagionato una compressione della libertà morale della vittima, sicchè il concomitante compimento di singole condotte di violenza privata produce un'offesa autonoma ed ulteriore, mentre sussiste assorbimento del reato di violenza privata nel caso in cui la condotta di cui all'art.572 c.p. sia tale da aver determinato di per sé una lesione alla libertà morale della persona offesa, con la conseguenza che le singole condotte lesive della libertà di autodeterminazione del soggetto passivo costituiscono una mera forma di estrinsecazione del più grave delitto di cui all'art. 572 c.p. (Cass. pen., sez. VI, 03 marzo 2020 n. 13709; conf. Cass. pen., sez. II, 04 marzo 2020, n. 19545). Analogamente c'è concorso e non assorbimento tra il reato di maltrattamenti e quello di atti persecutori, nell'ipotesi aggravata, in presenza di comportamenti che, sorti nell'ambito di una comunità familiare, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale, nonostante la persistente condivisa genitorialità. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto configurabile il concorso tra i due reati, sul presupposto della diversità dei beni giuridici tutelati, ritenendo integrato quello di maltrattamenti in famiglia fino alla data di interruzione del rapporto di convivenza e poi, dalla cessazione di tale rapporto, quello di atti persecutori Cass. pen., sez. VI, 16 febbraio 2022, n. 10626). Casistica | Assorbimento con altri reati | È configurabile il concorso formale - e non l'assorbimento - tra le fattispecie incriminatrici previste dagli artt. 572 e 582 c. p. quando le lesioni risultano consumate in occasione della commissione del delitto di maltrattamenti, con conseguente sussistenza dell'aggravante dell'art. 576, comma 1, n. 5, c.p.: in tal caso, infatti, non ricorre l'ipotesi del reato complesso, per la cui configurabilità non è sufficiente che le particolari modalità di realizzazione in concreto del fatto tipico determinino un'occasionale convergenza di più norme e, quindi, un concorso di reati, ma è necessario che sia la legge a prevedere un reato come elemento costitutivo o circostanza aggravante di un altro (Cass. pen., sez. VI, 22 aprile 2022, n. 17872).
Concorso con il reato di violenza sessuale.
In tema di reati contro la libertà sessuale, l'estensione del regime della procedibilità d'ufficio ex art. 609-septies, comma quarto, n. 4, cod. pen. ai delitti connessi con altri per cui sia prevista tale forma di procedibilità opera anche qualora l'accertamento del fatto integrante il delitto procedibile d'ufficio sia avvenuto ai soli effetti civili, non potendosene, in tal caso, escludere la rilevanza giuridica per ogni effetto diverso dalla punizione del responsabile. (Cass. pen., sez. III, 26 maggio 2021, n. 36323 ).
Concorso con altri reati.
Il delitto di maltrattamenti concorre con quello di lesioni, danneggiamento ed estorsione attesa la diversa obiettività giuridica dei reati(Cass. pen., sez.II,13 dicembre 2012, n. 15571); Il reato di maltrattamenti in famiglia assorbe i delitti di percosse e minacce anche gravi, ma non quelli di lesioni, danneggiamento ed estorsione, attesa la diversa obiettività giuridica dei reati (Cass. pen., sez. 3, 29 aprile 2015, n. 50208 ).
Incompatibilità con il delitto di abuso di mezzo di correzione.
Il reato di maltrattamenti, aggravato dalla circostanza dell'essere stato commesso alla presenza di un minore, prevista dall'art. 61, n. 11-quinquies, c. p., si differenzia dal reato di maltrattamenti in famiglia in danno di minore, vittima di violenza cd. assistita, perché, ai soli fini della configurabilità dell'aggravante, non è necessario che gli atti di sopraffazione posti in essere alla presenza del minore rivestano il carattere dell'abitualità. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto non esservi incompatibilità tra l'assoluzione dal reato di maltrattamenti in famiglia in danno di minori e la riconosciuta sussistenza del reato di maltrattamenti in danno della loro madre e della loro nonna, aggravato, ai sensi dell'art. 61, n. 11-quinquies, c.p., dall'avere essi sporadicamente assistito alle condotte prevaricatrici). (Cass. pen., sez. VI, 09 febbraio 2021, n. 8323).
Configurabilità del reato, in assenza di convivenza - parafamiliarità.
Ai fini della rituale contestazione del delitto di maltrattamenti di cui all'art. 572, c.p., commesso ai danni di anziani ricoverati in una casa di riposo, non è necessario che il capo d'imputazione rechi l'identificazione anagrafica delle vittime, essendo sufficiente che in esso s siano indicati il luogo e l'arco temporale di compimento delle condotte illecite siano indicati il luogo e l'arco temporale di compimento delle condotte illecite.(Cass. pen., sez. III, n. 1508/2019). Ai fini della configurabilità del delitto di cui all'art. 572 c.p., commesso all'interno di una comunità per l'assistenza e la cura dei disabili, lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime può derivare anche dal clima vessatorio generalmente instaurato, per effetto di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi dal personale a carico dei soggetti ricoverati, i quali, a causa delle proprie condizioni di vulnerabilità, sono vittime del detto reato tanto se patiscano in prima persona le violenze fisiche o verbali, quanto se ne siano meri spettatori. (Cass. pen., sez. VI, 28 marzo 2019, n. 16583).
Maltrattamenti e mobbing.
Integra il delitto di maltrattamenti, nella sua accezione di "mobbing" verticale, la condotta vessatoria che si consuma con l'abituale prevaricazione ed umiliazione poste in essere dal datore di lavoro nei confronti del dipendente, approfittando della condizione subordinata di questi, a nulla rilevando la formale legittimità delle iniziative disciplinari assunte verso il soggetto "mobizzato", anche in relazione a comportamenti reattivi dallo stesso assunti (Cass. pen., sez. VI, 14 giugno 2023, n. 38306).
Se uno dei genitori si trasferisce con il figlio in un’altra città e l’altro si oppone, quali sono le conseguenze?
Genitori divorziati consensualmente con affido condiviso, il genitore collocatario, la madre, intende trasferirsi per motivi di lavoro, ma il papà si oppone. Come si può agire?
Va preliminarmente rilevato che i genitori separati e/o divorziati con figli che esercitano, come nel caso di specie in cui opera il regime di affidamento con diviso, congiuntamente la responsabilità genitoriale, sono chiamati ad assumere di comune accordo tutte le decisioni più importanti riguardanti i figli.
Tra queste vi è senz'altro la scelta del luogo in cui i figli devono vivere.
L'art. 337-ter c.c. prevede, infatti, espressamente che le decisioni di maggiore interesse per i figli relative alla scelta della residenza abituale del minore (oltre che all'istruzione, all'educazione, alla salute) debbano essere assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei medesimi.
Anche l'art. 316 c.c. al primo comma prevede che “entrambi i genitori hanno la responsabilità genitoriale che è esercitata di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio. I genitori di comune accordo stabiliscono la residenza abituale del minore”.
Non vi è dubbio, dunque, che la residenza dei figli minori per espressa previsione normativa debba ritenersi una questione di maggior interesse che rientra tra quelle decisioni che devono necessariamente essere assunte congiuntamente dai genitori.
Trattandosi di una delle questioni di maggiore importanza per la vita del minore, anche in caso di disgregazione della unione familiare la scelta della residenza abituale deve essere assunta «di comune accordo» da padre e madre.
Su questo aspetto la giurisprudenza di merito e di legittimità è da sempre molto severa tanto che il trasferimento della residenza del figlio operato arbitrariamente da un genitore senza il consenso dell'altro è stato ritenuto atto illecito (Cfr Trib. Milano, sez. IX, 16 settembre 2013, Pres. Servetti, est. Cosmai; Trib. Milano, sez. IX, 13 novembre 2013, Pres. Servetti, rel. Buffone; v. anche, Cass. Civ., sez. I, sentenza 20 giugno 2012, n. 10174) e sanzionabile:
- sul piano civile ex art. 473-bis.39 c.p.c. con l'ammonimento e il risarcimento del danno (Cass. civ. 22 ottobre 2010 n. 21718) e con la modifica dell'affidamento (da condiviso a esclusivo) se il genitore, nella sua unilaterale iniziativa, ha precluso all'altro la concreta possibilità di partecipare alla vita dei figli e alle decisioni da assumere nel loro interesse (Cfr. Cass. n. 5136/2024).
- sul piano penale potendosi configurare il reato di sottrazione di minore ex artt. 574 c.p. (Cass. pen., sez. VI, sent. 29 luglio 2014 n. 33452).
Oggigiorno capita sempre più frequentemente che a seguito della separazione o del divorzio le cui condizioni (anche in punto di collocamento) siano già state regolamentate da un provvedimento del Giudice, il genitore collocatario manifesti l'intenzione o la necessità di cambiare residenza e trasferirsi, anche per motivi di lavoro, in un'altra città, Regione o all'estero.
In tale evenienza possono inevitabilmente sorgere notevoli contrasti tra le parti che fanno da “apripista” a diversi interessi coinvolti e contrapposti.
Da un lato, ciascun genitore separato, anche se collocatario, ha il diritto costituzionalmente garantito (art. 16 Cost.) di trasferire liberamente la propria residenza e luogo lavorativo, anche lontano da quella dell'altro genitore, senza che ciò ne comporti di per sé l'inidoneità all'affidamento e al collocamento dei figli minori (Cfr. Cass. civ., 1 luglio 2022 n. 21054; Cass. civ. 28 febbraio 2020, n. 5604; Cass. civ. 18 luglio 2019, n. 19455).
Dall'altro lato bisogna, però, anche considerare che il minore è portatore di un diritto alla bigenitorialità sancito dall'art. 337-ter c.c. e dall'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (CEDU) da intendersi sia come diritto ad avere una presenza comune dei genitori nella sua vita, in modo che gli sia garantita una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, ma anche quale dovere di entrambi i genitori di cooperare nell'assistenza, educazione ed istruzione permettendo in concreto l'effettività di tale diritto (Cfr. Cass. 4796/2022).
Fermo quanto detto ed entrando nel merito del quesito posto è indiscutibile che la decisione del genitore collocatario di trasferirsi con il figlio per motivi di lavoro non può certamente essere assunta se non vi è anche il consenso del genitore non convivente con lui.
Pertanto, in difetto di un accordo, la decisione è rimessa al Giudice (art. 337-ter c.c.). Il genitore che intende trasferirsi con il figlio dovrà necessariamente ricorrere in Tribunale ex art. 473-bis.38 c.p.c. per farsi autorizzare trattandosi di controversia inerente all'esercizio della responsabilità genitoriale. Ovviamente il genitore non collocatario, costituendosi in giudizio, potrà opporsi al trasferimento della residenza del minore pretesa dall'altro e chiedere perfino una modifica del suo collocamento.
Ai fini della decisione il Giudice sarà chiamato a compiere una valutazione ampia di variegati fattori.
Il Tribunale di Milano in una pronuncia emessa l'11/6/2014 si era già espresso sul tema indicando i criteri che devono ispirare il Giudice nel momento in cui si trova a dirimere la controversia insorta tra i genitori affidatari della prole, nel caso in cui uno di essi intenda
trasferire la propria residenza e, con essa, quella dei figli conviventi. Detti criteri sono:
a) le motivazioni del trasferimento prospettato, che non devono essere legate alla soddisfazione di bisogni superficiali o narcisistici, come ad esempio opportunità lavorative più remunerative o un semplice cambio di ambiente sociale ma devono corrispondere ad effettive esigenze, lavorative o affettive, meritevoli di tutela.
b) i tempi e le modalità di frequentazione tra il figlio e il genitore non collocatario. Il trasferimento non solo deve essere giustificato ma non deve neppure compromettere il diritto del minore a mantenere rapporti il genitore non collocatario. Occorre, quindi, verificare se i tempi e le modalità di visita e di frequentazione tra il figlio e il genitore non collocatario possano o meno continuare a essere garantiti dopo il trasferimento e presentino profili di fattibilità realistiche che non costringano il genitore non collocatario a stravolgere le sue abitudini di vita o ad affrontare costi economici sproporzionati ai propri redditi per poter continuare a vedere il figlio.
c) le relazioni consolidate del minore, inclusi i legami con parenti, ascendenti, figure chiave di entrambi i rami genitoriali e amici.
d) l'analisi delle caratteristiche dell'ambiente familiare in cui il genitore collocatario vuole trasferirsi rispetto a quelle ove si trova il minore in precedenza al suo trasferimento nonché anche la sua distanza dal luogo in cui si trova il genitore non collocatario.
Difficilmente sarà autorizzato il trasferimento in ambienti che sotto li profilo sociale o relazionale potrebbero rivelarsi pregiudizievoli per lo sviluppo equilibrato e sereno dei figli.
e) la valutazione dell'impatto che potrebbe avere il trasferimento sulla psiche del minore, in considerazione della sua età e del suo bisogno di stabilità ambientale, relazionale, emotiva e psicologica;
f) l'età del minore e la sua volontà di trasferirsi, se esprimibile in considerazione dell'età.
Al riguardo si precisa che le nuove norme della riforma Cartabia (art. 473-bis.8 c.p.c.) prevedono che il minore (anche infradodicenne se capace di discernimento) debba essere ascoltato dal Giudice nel procedimento in cui (come nel caso di specie) debbano essere assunti provvedimenti che lo riguardano.
Minore è l'età e minore è la probabilità, ovvero il rischio, di una completa compromissione di un significativo legame con il genitore non collocatario. Maggiore sarà l'età e con essa maggiore il grado di maturazione e di sviluppo psicofisico del minore e quindi maggiore rilevanza avranno nella decisione il suo parere e i suoi desideri.
Ad ogni modo un punto è fermo: ogni decisione riguardante il trasferimento dei figli deve sempre considerare prioritariamente l'interesse superiore del minore a mantenere rapporti significativi con entrambi i genitori.
La libertà delle parti di muoversi e scegliere il proprio luogo di residenza al fine di realizzare le proprie aspirazioni sociali e lavorative garantite dalle leggi nazionali e internazionali, va sempre bilanciata con la tutela del miglior interesse del minore.
Il Tribunale è tenuto, quindi, a decidere in funzione esclusiva del preminente interesse del minore alla bigenitorialità che costituisce il fondamento del regime giuridico dell'affidamento condiviso.
La Corte di Cassazione in casi analoghi ha stabilito ad esempio che il trasferimento della residenza di un figlio in un luogo troppo lontano da quello in cui si trova il genitore non collocatario , anche se dettato da motivi di lavoro del genitore collocatario, non è consentito in quanto configura una violazione del diritto alla bigenitorialità, poiché non individua idonee compensazioni per garantire il mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo tra i minori e il genitore non convivente (Cass. civ. 12282/2024).
Anche in un'altra recente pronuncia i Giudici di legittimità hanno riconosciuto la prevalenza del diritto del minore alla bigenitorialità ritenuto violato in caso di trasferimento della prole con la madre a parecchi chilometri di distanza dalla residenza del padre. (Cass. civ. n. 12282/2024).
Dunque l'interesse del genitore collocatario (al trasferimento) può quindi essere tenuto in considerazione purché non ci sia una compromissione del diritto di visita del figlio da parte del genitore non collocatario.
In altre parole, il trasferimento potrà essere autorizzato solo se non incide negativamente sul legame esistente tra il genitore non collocatario e il minore e detto legame possa continuare ad essere mantenuto e preservato (se ad esempio la città di destinazione è relativamente vicina e facilmente raggiungibile, il Giudice potrebbe autorizzare il trasferimento).
La bigenitorialità costituisce del resto anche espressione di un diritto fondamentale del genitore, sia in relazione alla tutela dello stesso come individuo, sia in relazione alla uguaglianza nella coppia genitoriale, ex articoli 2 e 3 della Costituzione (Cfr. anche Trib. Monza, sent. 23 novembre 2023, Est. Bonomi).
Le legittime scelte di un genitore di trasferire la propria residenza per seguire le proprie aspirazioni non possono mai pregiudicare l'altrettanto legittimo diritto del figlio e dell'altro genitore a conservare la relazione affettiva e l'ambiente di vita.
Il diritto del genitore a cambiare la propria residenza e a trasferirsi deve essere bilanciato con ben due diritti fondamentali del figlio: quello a preservare la bigenitorialità (ex art. 30 Cost., 24 Carta di Nizza, 9, comma 3, Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989) e quello a conservare la stabilità di vita che esso ha nel luogo in cui vive ed è integrato.
Di questo bilanciamento l'interesse del minore è il criterio guida ovvero il metro di valutazione che i tutti i giudici, in casi come quello di specie, devono utilizzare per assumere la decisione.
Che cos’è l’assegno unico per i figli e a quale genitore spetta?
L'assegno unico universale per i figli a carico è un beneficio economico attribuito, su domanda e su base mensile, ai nuclei familiari sulla scorta della condizione economica del nucleo nel quale il minore è inserito, secondo l'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), di cui al d.P.R. 159/2013.
L'attuale normativa prevede che l'assegno unico spetti a entrambi i genitori, anche separati o non conviventi con i figli e che, in caso di affidamento condiviso, il beneficio si suddivida tra i due genitori, ma occorre tener conto che si tratta di una misura a sostegno della genitorialità disposta nell'interesse del minore. Tale fatto può indurre l'organo giudicante a riconoscere la spettanza di tale misura al genitore unico collocatario, in modo che possa assolvere direttamente e in modo più adeguato alle esigenze del minore.
L'art. 6, comma 4, d. lgs. 230/2021, sull'assegno unico universale, stabilisce: “L'assegno è corrisposto dall'INPS ed è erogato al richiedente ovvero, a richiesta, anche successiva, in pari misura tra coloro che esercitano la responsabilità genitoriale. In caso di affidamento esclusivo, l'assegno spetta, in mancanza di accordo, al genitore affidatario”. Ai sensi dell'art. 2, comma 1 del medesimo d. lgs. l'assegno è riconosciuto ai nuclei familiari con figli, mentre l'art. 5, comma 4, precisa che “per componente familiare si intende: a) per i nuclei familiari che comprendono entrambi i genitori, inclusi quelli separati o divorziati o comunque non conviventi”.
Più nel dettaglio, si consideri la Circolare INPS, n. 23/22, la quale specifica che “qualora il giudice, in ipotesi di affidamento condiviso, stabilisca il collocamento del minore presso il richiedente l'assegno unico e/o universale per i figli si può optare per il pagamento al 100% al genitore collocatario...lo stesso giudice, in caso di procedimento giudiziale può stabilire che l'assegno unico debba attribuirsi al genitore collocatario per intero, in aggiunta all'assegno di mantenimento”. Al riguardo, va osservato che la norma in questione, nella parte in cui stabilisce che, in mancanza d'accordo tra i genitori del minore, ex coniugi, l'assegno vada attribuito al genitore affidatario, è espressione di un principio generale che attiene, anzitutto, al rapporto tra gli stessi genitori e l'ente pagatore.
La norma in esame, dunque, contempla una procedura diretta a consentire, senza lungaggini, l'immediato pagamento dell'assegno universale e a superare gli eventuali contrasti tra i genitori che emergano nella fase di richiesta all'Inps. Tale norma non pone però una preclusione rispetto al giudice della fase del divorzio che pronunci sulle istanze di affidamento dei figli minori, che può stabilire un affidamento condiviso. Invero, il giudice del merito può correttamente ritenere che l'assegno possa essere attribuito al genitore collocatario del minore, per verosimili esigenze di semplificazione, nell'interesse della prole, trattandosi del genitore che convive con il figlio e che, dunque, provvede ai bisogni e alle esigenze immediate di quest'ultimo.
Giova al riguardo, rilevare che l'assegno in questione, che spetta a favore delle famiglie con figli a carico fino al compimento del ventunesimo anno di vita, è definito unico, perché finalizzato alla semplificazione e, contestualmente, al potenziamento degli interventi diretti a sostenere la genitorialità e la natalità, come si evince anche dalle informative rese in proposito dall'Inps. Ne consegue che la decisione del giudice deve rispondere alle finalità dell'assegno unico, con la precisazione che l'attribuzione della somma al genitore collocatario avviene di fatto nell'ambito di un mandato ex lege, seppur tacito, riguardante l'utilizzo dell'intera somma nell'esclusivo interesse della prole, rispetto al quale vi è comunque il diritto dell'altro genitore di chiederne conto, in maniera non diversa da ogni altra spesa sostenuta nell'interesse dei figli, e sotto controllo del giudice.
La madre ostacola gli incontri del padre col figlio: a quale giudice deve rivolgersi il padre per reclamare ed interrompere tale grave comportamento?
A quale giudice deve rivolgersi il padre acchè la madre venga costretta con un provvedimento ad interrompere tale comportamento alienante?
Preliminarmente è opportuno evidenziare che il comportamento del genitore che ostacola o preclude le frequentazioni con il figlio minore da parte dell'altro genitore è certamente grave e lesivo del principio della bigenitorialità che riconosce l'esigenza di garantire la presenza comune dei genitori nella vita del figlio ovvero il diritto dello stesso a mantenere un rapporto continuativo ed equilibrato con ciascuno, ricevendo cura, educazione, istruzione e assistenza.
Laddove il regime di frequentazione genitore-figlio/a sia già regolamentato da un provvedimento giurisdizionale in vigore (emesso nell'ambito di un procedimento di separazione, divorzio e/o di regolamentazione dell'affidamento di minore nato fuori dal matrimonio) il genitore che subisce le condotte ostruzionistiche poste in essere dall'altro potrà ricorrere al Giudice presentando un apposito ricorso ai sensi degliartt. 473-bis.38 c.p.c e 39 c.p.c. per chiedere l'adozione degli opportuni provvedimenti funzionali a garantire l'attuazione delle frequentazioni e anche misure sanzionatorie.
Queste due norme contengono una nuova disciplina finalizzata a garantire l'effettività dei provvedimenti e degli accordi in materia di affidamento dei minori e vanno lette in stretta connessione prevedendo diversi tipi di interventi che possono essere richiesti insieme: l'attuazione diretta dei provvedimenti sull'affidamento quando sussiste un'opposizione alla cooperazione; assunzione, da parte del giudice, di decisioni sulle questioni di maggiore importanza quando i genitori non trovano un accordo; adozione di sanzioni o misure coercitive a fronte di gravi violazioni, per stigmatizzarle e evitarne la reiterazione.
Il Giudice, per il tramite del procedimento ad hoc delineato dall'art. 473-bis.38 c.p.c., può non soltanto determinare le modalità di attuazione dei provvedimenti (profilo questo di “esecuzione diretta”) adottando ogni genere di provvedimento, anche temporaneo, nel caso si presentino delle difficoltà, ma può, risolvere anche le controversie sulla responsabilità genitoriale, irrogare le sanzioni e le misure coercitive di cui all'art. 473-bis.39 c.p.c., condannare al risarcimento dei danni il genitore inadempiente (profilo dell'”esecuzione indiretta”) e modificare i provvedimenti in vigore.
Quanto all'individuazione del Giudice competente ad adottare le opportune misure volte a garantire il rapporto padre figlia, la norma di cui all'art. 473-bis.38 c.p.c. disciplina il profilo della competenza stabilendo che il procedimento deputato all'attuazione dei provvedimenti sull'affidamento può essere sia incidentale che autonomo.
Il primo ed il secondo comma si occupano, infatti, di individuare il giudice competente operando una distinzione a seconda che sia stato già incardinato o meno un procedimento.
Se è già in corso un procedimento pendente il ricorso deve essere presentato al Giudice di detto procedimento che provvede in composizione monocratica.
Qualora, al contrario, non vi sia un procedimento pendente, competente, sempre in veste monocratica, sarà il Giudice che ha emesso il provvedimento (violato) che disciplina le frequentazioni.La competenza del giudice della cognizione é preordinata a fare sì che, all'occorrenza, egli possa nel modo più rapido e semplice integrare e/o modificare il proprio provvedimento ovvero risolvere le difficoltà e le contestazioni sollevate dalle parti in fase di attuazione.
Per la particolare ipotesi, invece, in cui il minore si sia nel frattempo trasferito, la competenza viene attribuita dal legislatore al Giudice del Tribunale del luogo in cui il minore ha la residenza abituale così come previsto dall'art. 473-bis.11 c.p.c. Tale norma generale disciplina la competenza per territorio, prevedendo al 1° comma nei giudizi di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ed in quelli relativi ai figli nati fuori dal matrimonio – nei quali vi siano da adottare provvedimenti che riguardano un minore – è competente il Tribunale del luogo in cui il minore ha la residenza abituale da ritenersi per giurisprudenza consolidata, il luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale del minore, dove il minore ha il centro dei propri legami affettivi non solo parentali, derivanti dallo svolgimento in tale località della quotidiana vita di relazione.
Come noto, le risultanze anagrafiche hanno mero valore presuntivo e possono sempre essere superate, in quanto tali, da prova contraria, ad esempio mediante produzione in giudizio dell'iscrizione scolastica o della documentazione attestante la sua partecipazione ad attività ludiche su quel territorio, rilevando esclusivamente il luogo di dimora effettiva. La scelta di individuare, quale criterio generale per tutti i procedimenti in cui siano coinvolti dei minori, quello della loro residenza abituale è coerente con i principi enunciati dalle fonti sovranazionali, e quindi di rango costituzionale volti a riconoscere la centralità del minore in tutte le questioni che lo riguardano.
L'istituto della residenza abituale del minore rinviene infatti la sua ragion d'essere nella necessità di prevenire ed evitare il fenomeno del c.d. forum shopping, ovvero la pratica dello spostamento arbitrario della residenza del minore ad opera di uno dei genitori, motivato dalla volontà di assegnare il contenzioso al giudice più confacente ai propri interessi.
SI PUO' CONTROLLARE COME VIENE SPESO DALL'EX L'ASSEGNO DI MANTENIMENTO DEL FIGLIO?
Alla nascita di un figlio, spetta ai genitori accudirlo e mantenerlo fino al raggiungimento della maggiore età, così come è previsto dall’art. 147 del nostro codice civile. Ciò vale per tutti i tipi di coppie: sposate, conviventi, separate o divorziate.
In caso di separazione o divorzio dei coniugi, può essere fissato in sede giudiziale un assegno di mantenimento mensile in favore dei figli nati all’interno del matrimonio.
Diversamente, si potrà ottenere lo stesso assegno anche quando i genitori non sposati, una volta terminata la convivenza, si rivolgano al giudice per regolare i rapporti personali e patrimoniali con il minore.
Più precisamente, l’assegno di mantenimento viene versato dal genitore “non affidatario” del bambino: cioè, quello che non convive nella stessa abitazione con il figlio.
L’assegno serve a coprire tutte le necessità quotidiane del minore: cibo, abbigliamento, acquisto dei farmaci base, materiale scolastico e così via.
Ma è possibile, per chi versa mensilmente il mantenimento, “controllare” e avere magari un resoconto su come questi soldi - destinati alla prole - vengano realmente spesi dall’ex partner?
Il timore di fondo è che queste somme possano essere utilizzate dall’altro coniuge per soddisfare esigenze personali e non per i bisogni del minore.
La Corte di Cassazione, con una lunga scia di sentenze, tra cui la Cass. Civ., I Sez., sent. 18 giugno 2015, n.12645, nega all’ex coniuge la possibilità di avere un resoconto sulla gestione delle somme versate a titolo di mantenimento del figlio.
La Corte spiega che ciò avviene per diversi motivi.
In primis, non c’è alcuna norma nel nostro ordinamento che stabilisca la facoltà dell’ex coniuge che versa il mantenimento al figlio di ottenere un rendiconto sulle somme versate. In aggiunta a ciò, questo tipo di attività viene vista dalla Cassazione come del tutto superflua!
Difatti, il codice civile mette a disposizione del genitore non affidatario tutta una serie di poteri per poter reagire a un comportamento dell’ex partner poco trasparente e pregiudizievole nei confronti del figlio.
Gli artt. 337 ter c.c. e ss., infatti, affermano che le decisioni più importanti nell’interesse del minore devono essere prese da entrambi i genitori e che il genitore non affidatario conserva il potere di vigilare sulla corretta istruzione ed educazione del minore.
Quindi, il genitore non affidatario potrà, in qualsiasi momento, rivolgersi al giudice quando ritenga che l’ex partner stia assumendo comportamenti che possano danneggiare il minore.
Infine, c’è da tenere presente che anche i provvedimenti relativi ai figli sono in ogni tempo modificabili.
Dunque, il genitore potrà far valere ogni sua pretesa dinanzi al giudice e revisionare l’entità dell'assegno, qualora dimostri che le somme destinate al minore vengano effettivamente impiegate per necessità personali dell’ex coniuge.
In tutte le vicende che interessano i figli, si deve pretendere da entrambi i genitori - anche se ex - maturità e buonsenso nella risoluzione dei problemi, ai fini della salvaguardia del benessere del minore. Entrambi devono, infatti, collaborare alla cura e all’educazione del bambino, evitando di alimentare questioni, facilmente risolvibili con gli strumenti che il diritto mette a disposizione.
E' REATO PICCHIARE IL FIGLIO CHE NON STUDIA.
Fonte: Cass. Pen. sez. VI, 28 febbraio 2023, n. 17558.
Le condotte connotate da modalità aggressive e dall'impiego di violenza fisica o psichica sono compatibili con l'esercizio lecito del potere correttivo ed educativo ovvero incidono sullo sviluppo armonico della personalità del minore, esulando esse dal perimetro applicativo dell'articolo sull'abuso dei mezzi di correzione?
Massima.
Le condotte, seppur connotate da spirito educativo, ma caratterizzate da modalità aggressive sono incompatibili con l'esercizio lecito del potere correttivo e pedagogico, che mai deve abbattersi sull'armonico sviluppo della personalità del minore.
Il caso.
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ravenna propone ricorso per Cassazione contro la sentenza emessa da tale Tribunale con la quale Tizio è stato condannato alla pena di 20 giorni di reclusione per il reato di abuso di mezzi di correzione o di disciplina, ai sensi dell'art. 571 c.p., così riqualificata l'originaria imputazione di cui all'art. 572 c.p. (maltrattamenti in famiglia), deducendo il vizio di violazione dell'art.571 c.p.
Il Tribunale aveva, infatti, erroneamente qualificato come “abuso di mezzi di correzione” le condotte violente poste in esse da Tizio nei confronti del figlio minore ed escluso l'abitualità delle condotte sulla base del solo dato relativo al numero dei comportamenti, omettendo di considerare la sistematicità delle condotte di sopraffazione fisica e morale descritta dal minore il cui racconto è stato considerato attendibile dal Tribunale.
La Suprema Corte accoglierà il ricorso e rinvierà la decisione ad altra sezione della Corte d'appello di Bologna, non ritenendo il configurarsi del reato di abuso di mezzi di correzione bensì di quello di maltrattamenti in famiglia.
La questione.
Le condotte connotate da modalità aggressive e dall'impiego di violenza fisica o psichica sono compatibili con l'esercizio lecito del potere correttivo ed educativo ovvero incidono sullo sviluppo armonico della personalità del minore, esulando esse dal perimetro applicativo dell'articolo sull'abuso dei mezzi di correzione?
Le soluzioni giuridiche.
Nel caso di specie, il Tribunale ha riqualificato la condotta muovendo innanzitutto dall'analisi del capo di imputazione in cui sono state contestate all'imputato condotte di maltrattamento del figlio minore, consistite nel colpirlo con calci, nel metterlo al corrente dei suoi dubbi sulla paternità, nel chiuderlo fuori sul terrazzo e nel colpirlo con una cinta alla schiena.
Il Tribunale ha ritenuto di riqualificare le condotte nel reato di abuso di mezzi di correzione o di disciplina, considerando il loro carattere episodico e la loro correlazione al rendimento scolastico del minore.
La Suprema Corte, tuttavia, reputa che la sentenza impugnata sia oggetto di violazione di legge, qualificando erroneamente le condotte accertate in dibattimento ai sensi dell'art. 571 c.p. e afferma che “l'abuso presuppone l'eccesso nell'uso di mezzi di correzione o di disciplina in sé giuridicamente leciti. Tali non possono tuttavia considerarsi gli atti che, pur ispirati da un animus corrigendi, sono connotati dall'impiego di violenza fisica o psichica”.
Invero, come già affermato dalla Corte di Cassazione “alla luce della linea evolutiva tracciata dalla Convenzione dell'ONU sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989, le condotte connotate da modalità aggressive sono incompatibili con l'esercizio lecito del potere correttivo ed educativo, che mai deve deprimere l'armonico sviluppo della personalità del minore” (cfr. Cass. pen. 3 marzo 20222, n. 13145).
I giudici confermano che “l'uso di qualunque forma di violenza fisica o psicologica a scopi educativi esula dal perimento applicativo dell'art. 571 c.p.; ciò sia per il primato che l'ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, ormai soggetto titolare di diritti e nonpiù, come in passato, semplice oggetto di protezione– se non addirittura di disposizione – da parte degli adulti; sia perché non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di connivenza utilizzando un mezzo violento che tali fini contraddice”.
Attualmente, si ritiene ammessa tra i mezzi di correzione esclusivamente una vis modicissima, per cui “non possono ritenersi preclusi quegli atti di minima violenza fisica o morale, che risultano necessari per rafforzare la proibizione, non arbitraria né ingiusta, di comportamenti oggettivamente pericolosi o dannosi rispecchianti l'inconsapevolezza o la sottovalutazione del pericolo, la disobbedienza gratuita, oppositiva e insolente”, integrando invece “la fattispecie dell'art. 571 c.p., non trasmodando in quello più grave dell'art. 572 c.p., l'uso in funzione educativa del mezzo astrattamente lecito, sia esso di natura fisica, psicologica o morale, che sconfina nell'abuso, sia in ragione dell'arbitrarietà o intempestività della sua applicazione, sia in ragione dell'eccesso della misura, senza tuttavia attingere a forme di violenza”. Sulla stessa linea la sentenza della Suprema Corte che ha ritenuto l'uso occasionale di un “opportuno “ceffone” consentito e legittimo nella misura in cui non trasmodi in apprezzabile eccesso, trasformandosi, in tal caso, nell'illecito dell'abuso” (Cass. pen., sez. VI, 9 gennaio 2004, n. 4934).
Si ricordi, a tal proposito, la notizia del 27 giugno 2007 di un'insegnante assolto per aver fatto scrivere cento volte sul quaderno la frase “sono un deficiente” come punizione per un comportamento malvagio del ragazzo nei confronti di un suo compagno di classe.
Osservazioni.
Partiamo dalla definizione che il codice penale, all'art. 571 c.p., dà dell'abuso dei mezzi di correzione o disciplina: “commette il delitto di abuso dei mezzi di correzione o disciplina chiunque abusa dei mezzi di correzione o disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l'esercizio di una professione o di un'arte”.
Questa previsione normativa è collocata nel secondo libro del codice penale, sotto il titolo dedicato ai delitti contro la famiglia e, in particolare, nel capo quarto, intitolato “dei delitti contro l'assistenza familiare”.
Per il suo ambito di applicazione e il suo contenuto, la norma è una delle più dibattute del nostro ordinamento e ha dato origine a diversi contrasti interpretativi.
L'articolo in esame, in particolare, ha la finalità di reprimere la condotta di tutti coloro che, in forza della loro autorità, abusano dei mezzi di correzione e di disciplina nei confronti della persona loro sottoposta o loro affidata per varie ragioni.
Il bene giuridico tutelato è l'interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia e di tutte le altre istituzioni interessate nei rapporti di disciplina.
Nonostante la disposizione normativa utilizzi l'espressione “chiunque”, è necessario che il soggetto attivo del reato sia titolare di un potere legittimo di correzione o di disciplina.
Di conseguenza, si è in presenza di un reato proprio, considerato che i soggetti attivi e, quindi, legittimati a usare mezzi di correzione o di disciplina possono essere soltanto quegli individui legati al soggetto passivo da un vincolo di cui sono titolari.
La condotta sanzionata si realizza quando l'azione posta in essere dal soggetto attivo, trascendendo i limiti dell'uso del potere correttivo e disciplinare a lui spettante nei confronti della persona offesa, sconfina nell'abuso, qualora lo ius corrigendi venga posto in essere con modalità non appropriate o per cercare di raggiungere un interesse diverso da quello per il quale è conferito dall'ordinamento.
Questo delitto, così come è stato delineato dalla norma, è sottoposto ad una condizione obiettiva di punibilità, in quanto l'abuso del mezzo correttivo o disciplinare integra il reato solamente se da esso derivi una malattia nel corpo e nella mente del soggetto passivo.
Ai fini della sussistenza della condotta tipica rileva la nozione di malattia nella mente, implicante la rilevanza penale della condotta. Essa è più ampia di quelle relative all'imputabilità ovvero ai fatti di lesione personale, estendendosi fino a comprendere ogni conseguenza rilevante sulla salute psichica del soggetto passivo, dallo stato d'ansia all'insonnia, dalla depressione ai disturbi del carattere e del comportamento(Cass. pen., sez. VI, sent. 16 febbraio 2010, n. 18289).
Sull'elemento soggettivo, perché si integri la fattispecie prevista dall'art. 571 c.p.c, è sufficiente il dolo generico, non richiedendo la norma il dolo specifico, cioè un fine particolare e ulteriore rispetto alla consapevole volontà di realizzare il fatto costituivo del reato. La dottrina, tuttavia, ha evidenziato come il delitto di abuso dei mezzi di correzione e di disciplina, proprio perché a dolo generico, presuppone l'uso lecito di tali mezzi, a prescindere dall'animus corrigendi e si realizza quando invece l'uso viene effettuato con modalità non adeguate o per perseguire un interesse diverso da quello per il quale è conferito dall'ordinamento.
Una delle interessanti questioni che ha più interessato la dottrina e la giurisprudenza sull'argomento è la distinzione tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e disciplina e quello di maltrattamenti in famiglia.
Infatti, i due delitti hanno avuto un iter parallelo nella codificazione italiana: i loro confini sono spesso sfumati, in considerazione della sovrapponibilità tra soggetti attivi e soggetti passivi e delle condotte tipiche similari.
Dopo l'emanazione del Codice Rocco, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti individuarono la linea di demarcazione trai due reati nel c.d. animus corrigendi, ossia nella volontà da parte dell'agente di correggere la persona sottoposta alla sua autorità. Se era presente l'intento correttivo, si ricadeva nell'ipotesi di cui all'art. 571 c.p., altrimenti sussisteva la fattispecie di cui all'art. 572 c.p.
Tale interpretazione è frutto del pensiero dell'epoca in cui fu elaborata, quando si riteneva pienamente legittimo l'utilizzo della vis modica come mezzo di correzione.
Si tenga a mente che nel contesto storico sociale in cui fu emanato il codice Rocco dominava un'ideologia improntata all'autoritarismo e al principio gerarchico che prevedeva la sottomissione all'autorità statuale, familiare, scolastica tra i valori primari dello Stato, comportando così che, in tale contesto ideologico, venisse tollerato l'uso della violenza come mezzo correttivo, purchè posto in essere attraverso mezzi leciti ed entro determinati limiti.
A tale stregua venivano considerati intollerabili e, di conseguenza, perseguibili, esclusivamente gli eccessi disciplinari dell'educatore o quei comportamenti che, pur avendo finalità educative, esulavano dal concetto di mezzi di correzione, sfociando nei maltrattamenti.
Questa distinzione, basata su un'ideologia superata, ha accompagnato la storia di tali reati fino a tempi recenti, in cui si è continuato a far leva, quale elemento distintivo, sull'animus corrigendi.
Solo in tempi relativamente moderni la giurisprudenza ha recepito l'esortazione proveniente da diverse fonti, quali parti della dottrina, dall'evoluzione storico sociale e dai diversi mutamenti legislativi che ne sono scaturiti, respingendo una volta per tutte l'utilizzo della violenza come mezzo di correzione e, quindi, come strumento educativo.
La Costituzione italiana prima (1947), la legge di riforma del diritto di famiglia poi (1975) e successivamente la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del bambino (1989) hanno gradualmente determinato l'opportunità di interpretare gli artt. 571 e 572 c.p. alla luce di nuovi principi e valori, portando come risultato che è culturalmente fuori tempo e giuridicamente inammissibile un'interpretazione delle predette norme che erano fondate sui paradigmi autoritaristici caratterizzanti l'ordinamento nel 1930. Da ciò ne è derivato un restringimento dell'ambito di applicazione dell'art. 571 c.p. e una lettura invertita dei rapporti tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e quello di maltrattamenti, portando la giurisprudenza a qualificare come maltrattamento, anziché come abuso di mezzo correttivo, l'esercizio di una funzione educativa caratterizzata da modalità afflittive della personalità. Al riguardo, è opportuno soffermare l'attenzione su una sentenza della Suprema Corte, la cui motivazione è particolarmente chiara ed efficace, con riferimento agli elementi distintivi tra i due reati (cass. pen., sez. VI, sent. 18 marzo 1996, n. 4904).
Si legge nella motivazione di tale sentenza che, nel momento in cui il giudice si trova di fronte alla necessità di valutare quando un comportamento costituisca abuso di mezzi di correzione e quale significato debba essere attribuito alla locazione “maltrattamento del minore” deve operare tale valutazione alla luce dei valori attuali della nostra civiltà, valori che escludono che la violenza possa costituire strumento educativo e che sono suggellati dalla Costituzione e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del bambino. Inoltre, le norme di tale Convenzione, che abbiano un contenuto preciso e determinato, sono immediatamente applicabili, soprattutto quelle che stabiliscono diritti dei minori e corrispondenti obblighi dei genitori, di altri privati e della pubblica amministrazione. Avendo, peraltro, lo Stato Italiano assunto l'obbligo di garantire e rispettare i diritti imposti dalla Convenzione, al fine di rendere effettiva la loro applicazione, è imposto al giudice di applicare direttamente tutte quelle disposizioni della Convenzione che non richiedono un intervento legislativo e, altresì, di interpretare le norme preesistenti alla luce di quei valori. Dopo aver fatto tale premessa la Suprema Corte prende in considerazione gli artt. 571 e 572 c.p. e li interpreta alla luce dei valori appena enunciati. Al riguardo, i giudici di legittimità ritengono che il termine correzione debba essere considerato sinonimo di educazione. Ciò comporta che l'abuso dei mezzi di correzione non può essere sussunto nell'art. 571 c.p. poiché si può ipotizzare un abuso solo nel caso in cui sia lecito l'uso, implicando che, se vengono utilizzati mezzi illeciti di per se stessi, non si può configurare il reato de quo. In buona sostanza, la Suprema Corte ritiene integrato il reato di abuso di mezzi di correzione o educazione solo nel caso in cui vi sia eccesso di metodi educativi leciti.
La successiva giurisprudenza ha chiarito ulteriormente tale distinzione.
Sull'argomento, è stato ritenuto che “il delitto di abuso di mezzi di correzione e disciplina presuppone un uso consentito e legittimo dei mezzi educativi che, senza attingere a forme di violenza, trasmodi in abuso a causa dell'eccesso, arbitrarietà o intempestività della misura.
Ove, invece, la persona offesa sia vittima di continui episodi di prevaricazione e violenza, tali da rendere intollerabili le condizioni di vita, ricorre il più grave reato di maltrattamenti in famiglia” (Cass. pen., sez. VI, sent. 12 settembre 2007, n. 34460).
Affidamento condiviso:
per le decisioni di ordinaria amministrazione non è necessario il consenso congiunto.
Cass. Civ. sez. I, 9 dicembre 2024, n. 31571
La questione su cui la Suprema è stata chiamata ad intervenire concerne il concetto di affido condiviso e la sua concreta applicazione, nonché l’esame dei presupposti che possono giustificare la pronuncia di affidamento esclusivo e super esclusivo (c.d. rafforzato).
Massima.
Nei casi di affidamento condiviso, per questioni di ordinaria amministrazione può decidere anche il solo genitore collocatario senza alcuna lesione del diritto alla bigenitorialità.
Ogni persona ha la propria storia da raccontare e la nostra è stata tutto fuorché banale. Soprattutto agli inizi del nostro percorso abbiamo affrontato tanti ostacoli, tuttavia c'è sempre stata una costante: il desiderio di perfezionare le nostre competenze e di acquisire quelle abilità che avrebbero fatto diventare la nostra azienda sinonimo di esperienza e professionalità nel nostro campo. Questo desiderio di imparare non è mai svanito e, ancora oggi, davanti a ogni nuova sfida, ci sforziamo di affinare le nostre strategie.
Il caso.
Il Tribunale di Torino, a seguito di richiesta di modifica dei provvedimenti precedentemente adottati in ordine all’affidamento di un figlio minore, rigettava la avanzata istanza di affidamento esclusivo del figlio al padre confermando, dunque, l’affidamento condiviso, ma con la riduzione dei tempi di permanenza dello stesso presso la madre.
Veniva altresì dal Tribunale disposta la presa in carico dei genitori da parte del Servizio Sociale affinchè fosse intrapreso un percorso di mitigazione della conflittualità tra loro e di ripresa delle loro modalità comunicative, necessarie per una sana crescita del figlio.
Il provvedimento veniva reclamato dal padre avanti la Corte d’Appello che respingeva la avanzata richiesta di affidamento super-esclusivo e, in ragione delle difficoltà mostrate dalla madre nel relazionarsi con il figlio, riteneva fosse da modificare la regolamentazione delle visite.
Ma, soprattutto, la Corte d’Appello, confermando l’affido condiviso, precisava che, quanto alle decisioni di maggiore interesse relative alla istruzione, all’educazione, alla salute ed alla scelta della residenza abituale del minore, le stesse avrebbero dovuto essere sempre concordate da entrambe i genitori; per quanto riguardava, invece, le questioni di ordinaria amministrazione, la Corte attribuiva al genitore collocatario, cioè al padre, il potere di assumere decisioni in autonomia di tipo scolastico, sportivo e ricreativo.
Il padre ricorreva, dunque, in Cassazione lamentando che la Corte d’Appello, attribuendo al padre, nell’ambito di un affidamento condiviso, il potere di assumere le suddette decisioni in autonomia, avrebbe creato una figura di affidamento condiviso “spuria”, non prevista dalla normativa né dalla giurisprudenza, in quanto la fattispecie avrebbe dovuto giustificare e sfociare in una pronuncia di affidamento esclusivo.
Il ricorrente, a tal proposito, rimarcava che era stata la stessa Corte a confermare che la madre non era idonea a svolgere la sua funzione genitoriale richiamando, all’uopo, il passaggio della CTU in cui si evidenziava che la stessa “non riesce ad essere accogliente ed empatica rispetto alle richieste del figlio ma rimane distante ed immobile “.
La mancata motivazione in ordine al mancato accoglimento della domanda di affido super esclusivo e la contraddittorietà della decisione di affido condiviso rispetto alle conclusioni della CTU, rappresentavano ulteriore motivo di impugnazione avanti la Suprema Corte.
La resistente, con ricorso incidentale, assumeva che la sentenza impugnata, pur partendo dalla corretta premessa della statuizione di affido condiviso, avrebbe violato il principio della bigenitorialità e dell’istituto stesso, escludendo la madre da ogni decisione inerente la regolamentazione della vita ordinaria, con evidenti ripercussioni anche sull’immagine e sulla autorevolezza della genitrice nei confronti del figlio.
La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza quivi in esame, rigetta, in quanto inammissibili, i motivi di impugnazione avanzati dal ricorrente e, al contempo, ritiene il motivo del ricorso incidentale infondato.
La questione.
La questione su cui la Suprema Corte è stata chiamata ad intervenire concerne il concetto di affido condiviso e la sua concreta applicazione, nonché l’esame dei presupposti che possono giustificare la pronuncia di affidamento esclusivo e super esclusivo (c.d. rafforzato).
Le soluzioni giuridiche.
Come è noto, l’attuale contesto normativo in tema di provvedimenti relativi alla prole si fonda sul diritto alla bigenitorialità riconosciuto al minore. Ne consegue che l’affido condiviso, previsto dall’art 337-ter c.c., resta il modello di riferimento nei casi di scioglimento della famiglia, restando comunque sempre il compito del Giudice di garantire e preservare il preminente e superiore interesse del minore.
In applicazione dell’art 337-quater c.c., tuttavia, l’organo giudicante può disporre l’affido esclusivo ad uno solo dei genitori qualora ritenga, con provvedimento motivato, che l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del minore.
Trattasi di soluzione che rappresenta l’extrema ratio da adottarsi solo qualora l’affidamento condiviso si riveli pregiudizievole per il figlio.
Ad esempio, nel caso in cui un genitore sia indifferente nei confronti del figlio, con contegno assente o disinteressato, ovvero non contribuisca al suo mantenimento, oppure manifesti un disagio esistenziale incidente sulla relazione affettiva, tale da non poterlo considerare adempiente ai propri doveri genitoriali, non vi è dubbio che tali condotte giustifichino la deroga al regime dell’affidamento condiviso.
Da parte di alcuna giurisprudenza di legittimità, anche l’elevata conflittualità tra genitori, laddove idonea ad alterare e porre in serio pericolo l’equilibrio e lo sviluppo psicofisico dei figli e, quindi, in grado di pregiudicare il loro superiore interesse, è stata considerata quale elemento giustificativo della pronuncia di affido esclusivo.
Ma affinchè si possa derogare al regime dell’affidamento condiviso, occorre che la motivazione del Giudice si fondi non solo sul fatto che risulti nei confronti di uno dei due genitori una condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa, ma anche che sia comprovata, in positivo, l’idoneità del genitore affidatario.
Nel modello di affidamento monogenitoriale, il genitore cui sono affidati i figli in via esclusiva ha l’esercizio della responsabilità genitoriale su di loro, ma le decisioni di maggior interesse per i figli medesimi devono essere adottate da entrambi i genitori, secondo quanto previsto dall’art 337-quater c.c.
In particolare, recita l’articolo, " il genitore cui sono affidati i figli in via esclusiva, salva diversa disposizione del giudice, ha l'esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale su di essi; egli deve attenersi alle condizioni determinate dal giudice. Salvo che non sia diversamente stabilito, le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi i genitori.
Il genitore cui i figli non sono affidati ha il diritto ed il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse ".
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È quindi doveroso precisare che il provvedimento di affido esclusivo non incide sulla titolarità della responsabilità genitoriale, ma ne modifica solo l’esercizio, nel senso che il genitore cui non sono affidati i figli ha sempre il diritto ed il dovere di vigiliare sulla loro istruzione ed educazione .
In altre parole, l’affido esclusivo comporta un maggior grado di autonomia decisionale per il genitore affidatario che può prendere decisioni sulla vita quotidiana del figlio senza il consenso dell’altro genitore. Ma per le decisioni rilevanti, quali quelle legate alla salute o alla formazione scolastica, il genitore non affidatario mantiene il diritto di essere consultato e informato.
Vi è, poi, il modello di affidamento “rafforzato” o “super eslcusivo” che, pur non essendo contemplato a livello normativo, è una figura coniata dalla giurisprudenza e ormai applicata dai Tribunali.
Tale istituto può essere ritenuto un sistema alternativo alla privazione della responsabilità genitoriale del genitore non affidatario di cui all’articolo 337-quater c.c.
A differenza dell’affidamento esclusivo, dove l’esercizio della responsabilità genitoriale è preclusa al genitore affidatario, ma le decisioni di maggior importanza per i figli continuano ad essere prese in comune dai genitori, nell’affidamento super esclusivo anche le decisioni di maggior importanza vengono assunte solo dal genitore affidatario senza il coinvolgimento dell’altro.
Inquadrati, dunque, i tre suddetti istituti, veniamo all’esame della decisione quivi in esame.
In primo grado, rigettando l’istanza di un padre di affidamento esclusivo, presso il quale era già collocato prevalentemente il figlio minore, tenuto conto delle risultanze della CTU, il Tribunale confermava l’affido condiviso dello stesso riducendo i tempi di permanenza del minore presso la madre.
La Corte d’Appello di Torino, a seguito di reclamo proposto dal padre, rigettava l’istanza di affidamento super-esclusivo, ma, in virtù delle criticità manifestate dalla madre, nel confermare l’affido condiviso, stabiliva che le decisioni di maggior interesse relative all’istruzione, all’educazione, alla salute e alla scelta della residenza abituale del minore avrebbero dovuto essere sempre concordate da entrambe i genitori, mentre per le questioni di ordinaria amministrazione, il padre collocatario avrebbe avuto il potere di assumere le decisioni in autonomia sulle questioni ordinarie di tipo scolastico, sportivo e ricreativo.
Una tale decisione ha indotto il padre a ricorrere in Cassazione per avere la Corte d’Appello creato una figura di affidamento condiviso “spuria”, non prevista dalla legge e dalla giurisprudenza, dal momento che porre le decisioni sulle scelte ordinarie a carico esclusivo del padre avrebbe dovuto comportare la pronuncia di affido esclusivo, risultando svuotata di fatta la peculiarità dell’affido condiviso.
La Suprema Corte, respingendo l’avanzato ricorso, ha invece confermato come l’affidamento condiviso sia del tutto compatibile con l’attribuzione al padre, collocatario, dei suddetti poteri, avendo ben motivato la Corte d’Appello le ragioni per escludere i presupposti per l’affidamento esclusivo e super-esclusivo.
Tali motivazioni si basavano sul fatto che, pur essendo emerse alcune criticità della madre circa le modalità empiriche con cui si rapportava al figlio, pur a fronte della osservata incapacità della stessa di coinvolgere il figlio in attività emotive e divertenti ed incapacità decisionale, tuttavia era indubbio il reciproco forte legame tra madre e figlio; tale difficoltà relazionale avrebbe potuto essere superata con un percorso di psicoterapia. La soluzione concreta più confacente era quella di ridurre i tempi delle visite della madre, anche a fronte di alcuni rifiuti da parte del figlio di trascorrere i giorni convenuti con lei.
Osservazioni.
Al centro delle argomentazioni della presente ordinanza della Suprema Corte vi è il tema della compatibilità con il regime di affidamento condiviso del riconoscimento al genitore collocatario del potere di assumere in modo autonomo le decisioni sulle questioni ordinarie di tipo scolastico, sportivo e ricreativo.
Ciò in quanto l'art 337-ter c.c., riguardo al regime di affido condiviso, stabilisce che le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all'istruzione, all'educazione ed alla salute ed alla scelta della residenza abituale del minore debbano essere assunte di comune accordo tra i genitori, mentre l'art 337-quater c.c. dispone che, in regime di affidamento esclusivo, salvo che non sia disposto diversamente, le decisioni di maggior interesse per i figli sono adottate da entrambi i genitori.
Orbene: esaminando l'ordinanza in questione, a parere di chi scrive emerge effettivamente un problema interpretativo circa la qualificazione di decisioni su “questioni ordinarie di tipo scolastico, sportivo e ricreativo”, attribuite nel caso di specie al padre pur in regime di affidamento condiviso, e “decisioni di maggior e interesse per i figli relative all'istruzione, all'educazione ed alla salute” che la legge prevede debbano essere assunte congiuntamente in costanza del medesimo regime.
Se è vero che, in base al citato art. 337-ter c.c., il Giudice, limitatamente alle questioni di ordinaria amministrazione, può stabilire che genitori esercitino la responsabilità genitoriale separatamente, è altrettanto vero che lo stesso Giudice dovrebbe, a questo punto, chiarire quali decisioni di tipo scolastico, sportivo e ricreativo siano da intendersi ricomprese nelle scelte ordinarie, dal momento che la dicitura dell'art 337-ter c.c. , riguardo le scelte da condividere, si riferisce all'istruzione, all'educazione ed alla salute.
Ciò pare necessario indipendentemente dal potere discrezionale che la legge pare attribuire al Giudice nella decisione, caso per caso, della regolamentazione del regime dell'affido condiviso.
Bombarda di messaggi l'ex compagno per ottenere il versamento del contributo per i figli : CONDANNATA!
Respinta la tesi difensiva, mirata a presentare la condotta della donna come giustificata dalla rivendicazione di un diritto.
Accolta l’istanza della Procura, che ha censurato la posizione del Tribunale, ossia il riconoscimento della non punibilità della donna per una presunta tenuità dei fatti.
Sentenza Cass. Pen., Sez. I, udienza del 25 ottobre 2024 (dep. 4 dicembre 2024), n. 44477
Presidente Casa - Relatore Masi
E' condannabile per il reato di molestia la donna che tempesta di messaggi - scritti e vocali - l‘ex compagno per ottenere il versamento del contributo per i figli.
A finire nei guai è una donna, mostratasi assillante verso l’ex compagno.
Quest’ultimo ha non solo raccontato la vicenda ma ha anche messo sul tavolo i messaggi - scritti e vocali - pervenuti sulla sua utenza telefonica e inviatigli dalla donna, da lui registrati e consegnati alla polizia giudiziaria in sede di denuncia.
Per il Giudice del Tribunale non vi sono dubbi: la condotta tenuta dalla donna va catalogata come palese molestia ai danni dell’uomo.
Inequivocabile il contenuto dei messaggi, motivati da ragioni ulteriori, oltre al mero mancato versamento del contributo paterno per i figli, e, soprattutto, aventi il connotato della petulanza ovvero dal tenore e dai modi presuntuosi e arroganti.
A sorpresa, però, il Giudice del Tribunale opta per l’assoluzione della donna, ritenendo la accertata condotta da lei tenuta non grave, ma, allo stesso tempo, la condanna a versare un adeguato risarcimento in favore dell’uomo, costituitosi parte civile.
Dopo la separazione la ex nuora e i nipoti hanno diritto a restare nella casa familiare di proprietà dei nonni?
I nonni non hanno diritto di ricevere in restituzione la casa concessa in comodato d'uso gratuito al proprio figlio per l'intervenuta separazione tra lui e la madre dei suoi figli.
Principio stabilito dalla Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sulla vicenda di due genitori che, concessa una porzione di abitazione in comodato d'uso gratuito al figlio (nello specifico, una mansarda di quattro vani più doppi servizi) agivano in giudizio chiedendo la restituzione dell'abitazione.
La Suprema Corte assegna la casa familiare all'ex nuora, così come già stabilito in sede di separazione e riconfermato poi in fase di divorzio.
Nel 2003 i genitori avevano concesso in comodato d'uso al proprio figlio, senza specificare un tempo di permanenza, una porzione della loro abitazione. Il figlio inizia una convivenza con la sua compagna, dalla quale, nel 2004, ha un figlio e che sposa nello stesso anno. Nel 2008 nasce il secondogenito.
Nel 2011 il marito presenta ricorso per la separazione e nel 2015 chiede il divorzio.
All'esito di entrambi i procedimenti i figli vengono collocati presso la madre, con la conseguenza che la casa familiare, originariamente lasciata in comodato d'uso al figlio, viene a lei assegnata.
I giudici di legittimità, nel motivare la propria decisione, sottolineano che il Codice Civile norma due forme di comodato: quello propriamente detto, regolato dagli artt. 1803 e 1809 c.c., sulla scorta dei quali il comodante può chiedere la restituzione immediata del bene concesso in comodato solo in caso di sopravvenienza di un bisogno urgente e imprevisto, e il comodato precario, ovvero, “ comodato senza determinazione di durata ”, ai sensi dell'art. 1810 c.c., caratterizzato dal dovere del comodatario di restituire il bene non appena questo viene richiesto dal comodante.
Tema, quest'ultimo, molto caro alla giurisprudenza, che a lungo ha dibattuto sul tipo contrattuale a cui ricondurre il comodato di immobile destinato a soddisfare le esigenze abitative della famiglia del comodatario, fino a quando le Sezioni Unite, con sentenza n. 13603/2004, hanno risolto il contrasto giurisprudenziale, stabilendo che, in caso di comodato di bene immobile, stipulato senza la determinazione di un termine finale, il vincolo di destinazione in favore delle esigenza abitative familiari non può essere desunto sulla base della mera natura immobiliare del bene concesso in godimento, ma implica un accertamento in fatto di competenza del giudice di merito. Successivamente, le Sezioni unite, con sentenza n. 20448/2014, hanno, peraltro, precisato che il comodato di casa familiare è riconducibile allo schema del comodato a termine indeterminato, ma non a quello del comodato ad uso precario di cui all'art. 1810 c.c., poiché il termine del comodato di casa familiare è desumibile dall'uso.
Il Giudice di merito deve valutare la sussistenza di un termine finale ed effettuare una attenta verifica delle intenzioni delle parti sulla destinazione dell'immobile; inoltre, spetta a colui che invoca il raggiungimento del termine prefissato provarne l'avveramento.
Nel caso di specie, la Corte di cassazione rigetta il ricorso dei nonni, proprietari dell'immobile conteso, poiché era stato provato che il figlio e la sua ex compagna avessero inteso utilizzare la casa per soddisfare le esigenze abitative della loro futura famiglia. I nonni, infatti, erano edotti che quella porzione di casa rappresentava l'abitazione del figlio, della nuora e dei nipoti e non avevano chiesto la restituzione del bene immobile per oltre dieci anni. Tale pretesa è stata presentata solo successivamente all'introduzione del giudizio di divorzio da parte del figlio.
E parimenti limpida per tutti i familiari era la destinazione dell'immobile a casa coniugale tanto che il figlio stesso aveva chiesto sia al giudice della separazione che al giudice del divorzio di assegnare la casa familiare alla moglie.
E neppure lo stato di bisogno reclamato dai nonni come ragione per rientrare in possesso della casa è stato accolto poiché non è stata riscontrata nessuna urgenza o imprevisto bisogno per l'insorgere di malattie e la necessità di cura di una badante, atteso che l'abitazione dei nonni comodanti consta di più di venti stanze che ben avrebbero consentito di accogliere anche il personale di servizio.
Casi di interferenza illecita nella vita privata.
La realizzazione di fotografie all'interno di luoghi di privata dimora con mezzi tecnici invasivi, tali da superare gli ostacoli alla visibilità, integra una condotta punibile ai sensi dell'art. 615-bis c.p., cui conseguono l'illiceità del trattamento dei dati acquisiti e l'obbligo del responsabile di risarcire il danno non patrimoniale connesso al pregiudizio dell'inviolabilità del domicilio (Cass. civ., sez. I, 22 luglio 2014, n. 16647).
Cosa debba intendersi per privata dimora lo ha chiarito nel tempo l'interpretazione giurisprudenziale, che oggi identifica un luogo di privata dimora come ogni luogo ove l'interessato esplichi, anche solo temporaneamente, la propria sfera intima e privata. In altre parole, ogni luogo ove egli goda di uno jus excludendi nei confronti di tutti gli altri: la propria abitazione, ovviamente, ma anche lo studio professionale o una camera d'albergo per il tempo in cui egli vi dimora. Sono quindi pacificamente esclusi i luoghi pubblici (strade, piazze, spiagge ecc.) nonché quelli aperti al pubblico come i ristoranti, i pubblici uffici, i bar o i negozi.
È bene ricordare, però, che la tutela del domicilio è limitata a ciò che si compie in luoghi di privata dimora in condizioni tali da renderlo non visibile ad estranei. Questo significa che se l'azione riprodotta, pur svolgendosi in luoghi di privata dimora, può essere liberamente osservata senza ricorrere a particolari accorgimenti – come avviene, ad esempio, nel caso di riprese audiovisive effettuate agevolmente da parte di condomini dell'edificio frontistante o prospiciente - il titolare del domicilio non può vantare alcuna pretesa al rispetto della riservatezza e il reato non si perfeziona (cfr. Cass. pen., sez. III, 8 gennaio 2019, n. 372).
Installazione di apparecchiature idonee ad intercettare le conversazioni telefoniche altrui all'interno dell'auto.
L'occulta collocazione all'interno di un'autovettura di un telefono cellulare in grado di intercettare le conversazioni intercorse tra le persone a bordo non integra il reato di installazione d'apparecchiature atte ad intercettare o impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche (art. 617-bis c.p.), non essendo in grado il congegno di captare le conversazioni di entrambi gli utilizzatori del telefono, né quello d'interferenze illecite nella vita privata (art. 615- bis c.p.), non essendo qualificabile l'autovettura come luogo di privata dimora (Cass. pen., sez. V, 23 ottobre 2008, n. 4926).
Illecita cognizione di conversazioni telefoniche tra familiari.
Risponde del reato di cui all'art. 617, comma 1, c.p. il padre che registra clandestinamente le conversazioni telefoniche intervenute tra la moglie separata e i figli minori della coppia, i quali possono opporre ai genitori una propria sfera di riservatezza, non essendo idonea ad escludere la fraudolenza della condotta la circostanza che l'imputato avesse comunicato al coniuge l'intenzione di agire in tal senso, né potendosi invocare come causa di giustificazione il diritto/dovere del genitore di vigilare sulle comunicazioni effettuate o ricevute dai figli minori (Cass. pen., sez. V, 17 luglio 2014, n. 41192).
Violazione di corrispondenza e tutela del domicilio informatico.
Nel caso di accesso abusivo ad una casella di posta elettronica protetta da “password”, è configurabile il delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico che concorre con quello di violazione di corrispondenza, in relazione all'acquisizione del contenuto delle mail custodite nell'archivio, e con il delitto di danneggiamento di dati informatici, nel caso in cui all'abusiva modificazione delle credenziali d'accesso consegua l'inutilizzabilità della casella di posta da parte del titolare (cfr. Cass. pen., sez. V, 25 marzo 2019, n. 18284).
Produzione processuale di corrispondenza abusivamente sottratta.
Integra il reato di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza (art. 616 c.p.) la condotta di colui che sottragga la corrispondenza bancaria inviata al coniuge per produrla nel giudizio civile di separazione; né, in tal caso, sussiste la giusta causa di cui all'art. 616, comma 2, c.p., la quale presuppone che la produzione in giudizio della documentazione bancaria sia l'unico mezzo a disposizione per contestare le richieste del coniuge-controparte (Cass. pen., sez. V, 4 ottobre 2013, n. 585).
"Padri siate presenti nella vita scolastica dei vostri figli"
In occasione dell'apertura dell'anno scolastico, così come avviene da oltre dieci anni, l'Associazione "Papà Separati dai Figli" lancia sul territorio pugliese la campagna "Padre Presente", ispirata dal "Documento per il Padre", redatto dal Prof. Claudio Risè, eminente psicologo, giornalista e saggista italiano.
Figli e figlie desiderano l’affetto e l’attenzione premurosa della figura paterna:
hanno bisogno di padri capaci di essere buoni modelli e di offrire validi
suggerimenti per il loro futuro. Ricerche e studi dicono che la presenza del
padre è insostituibile nel preparare i giovani ad entrare con serenità nella
vita, infatti:
quando i padri sono presenti nella vita scolastica dei figli
i buoni risultati aumentano, le difficoltà e i problemi diminuiscono.
Lo sapete che i figli con padri “assenti ” riportano voti più bassi nei test di lettura
e matematica, vengono maggiormente bocciati e abbandonano più spesso
gli studi? E che rientrano più frequentemente nel numero degli studenti con
problemi di comportamento (dalla demotivazione ai vandalismi, dal bullismo
all’uso di droghe)?
Sapete, invece, che la presenza dei padri favorisce nei figli
l’assunzione di comportamenti più responsabili e rispettosi, uno sviluppo
significativo delle capacità linguistiche e di abilità cognitive come il problem
solving o la concentrazione, e quindi il conseguimento di maggiore successo
scolastico e più elevati livelli accademici?
Da dove cominciare?
Padri, accompagnate più spesso i vostri figli a scuola, dialogate e
studiate con loro quando potete, insegnate ai vostri figli a gestire il tempo per evitare che lo perdano tra pc, tv e videogames, fate capire loro l’importanza dell’attività fisica e
del riposo nei giusti orari serali, incontrate gli insegnanti e informatevi su
programmi e obiettivi prefissati, partecipate e collaborate alle attività proposte
dalla scuola, conoscete gli altri genitori per dare voce alle vostre preoccupazioni
e aspettative educative.
Padri: siate più presenti per il bene dei vostri figli.
Associazione "Papà Separati dai Figli"
Bari, 8 ottobre 2024.
Auguri a tutti i Nonni!
Che in Italia si festeggiano il 2 ottobre di ogni anno con gli Angeli Custodi.
Oggi, 2 ottobre, è la Festa dei Nonni; questa Festa viene celebrata in tutto il Mondo, è stata introdotta negli Stati Uniti nel 1978 durante la presidenza di Jimmy Carter su proposta di Marian McQuade, una casalinga del West Virginia, madre di 15 figli e nonna di 40 nipoti, che iniziò a promuovere l’idea di una giornata nazionale dedicata ai nonni nel 1970, lavorando con gli anziani già dal 1956: riteneva, infatti, obiettivo fondamentale per l’educazione delle giovani generazioni la relazione con i loro nonni, portatori di conoscenza ed esperienza.
Negli Stati Uniti la festa nazionale dei nonni viene celebrata ogni anno la prima domenica di settembre dopo il Labor Day.
Nel Regno Unito, la Festa dei Nonni, introdotta nel 1990, dal 2008 viene celebrata la prima domenica di ottobre. In Canada viene celebrata dal 1995 il 25 ottobre. In Francia, il nonno e la nonna sono così importanti, che si chiamano “gran padre e gran madre” ( grand - père et grand- mère ) e sono festeggiati ogni anno separatamente: la Festa della Nonna già dal 1987, la prima domenica di marzo, mentre dal 2008 è stata introdotta la Festa del Nonno la prima domenica di ottobre.
E in Italia? Perché la festa dei nonni si festeggia il 2 ottobre di ogni anno?
Perché è la data in cui la Chiesa Cattolica celebra gli Angeli custodi che, proprio come i nonni, proteggono e custodiscono i bambini; l’istituzione della festa prevede, inoltre, l’impegno concreto da parte degli Enti locali (Regioni, Comuni, ecc. ) a istituire iniziative per valorizzare il ruolo dei nonni e, pensate, anche un premio annuale, consegnato dal Presidente della Repubblica al nonno e alla nonna d’Italia.
Da sempre figure di riferimento nella crescita e nell’educazione dei bambini, i nonni di tutta Italia vengono festeggiati il 2 ottobre con una ricorrenza civile divenuta dal 2005 evento nazionale con legge del Parlamento italiano (la l. 159 del 31 luglio 2005), proprio come succede per il papà e per la mamma, per celebrare l’importanza del loro ruolo all’interno delle famiglie e della società e ringraziarli per quanto fanno quotidianamente. I nonni, infatti, non solo contribuiscono alla crescita e all’educazione dei nipoti, ma sono anche un aiuto importante per molte associazioni di volontariato e supporto fondamentale per i genitori, in particolare per quei genitori che, a causa della separazione, in più casi, rimasti privi della propria abitazione, vengono ospitati a casa dei nonni ; nonni ai quali, in tali penose e non poche vicende di separazione/ divorzio dei propri figli, vengono improvvisamente interrotti e/o negate, contatti e relazioni coi propri innocenti nipotini, restando, così, i grandi esclusi dalle sentenze.
E’ indubbio, purtroppo, che tali riconoscimenti rivolti all’importanza dei nonni, per quanto previsti, particolarmente di carattere laico, purtroppo, restano in “sordina” o passano inosservati; peccato non esaltare degnamente, con la sentita dovuta importanza il Valore dei nostri nonni, les grands-parents , i grandi parenti, così come sono tradotti in francese dall’italiano.
Nonni presenti, affettuosi e capaci di insegnare preziose lezioni di vita, figure insostituibili nell’infanzia di ogni bambino che, diventato adulto ne ricorderà per sempre le coccole, le storie, i giochi e i tanti momenti spensierati.
E Nonni che, purtroppo, ormai non ci sono più; ognuno di noi ha studiato a scuola, e/o ha tenuto in famiglia le grandi figure che fecero da sfondo alla terribile vicenda, in particolare, degli anni 1915-1918, la guerra c.d. dei “nostri nonni”, la Prima Guerra Mondiale, che è stato forse il conflitto armato più terrificante della storia moderna, non tanto per la durata o per il numero di nazioni e imperi coinvolti, quanto per la disumanità delle sue vicende quotidiane e lo spreco dell’enorme numero di vite in gioco.
Racconti di ricordi, sofferenze, forza morale, profonda umanità, ragazzi e ragazze con speranze e sogni che solo in alcuni casi si sono potuti realizzare, violenza e disumanità della trincea, coraggio e inettitudine degli ufficiali, contatto giornaliero con la morte, scoperta di territori ostili e sconosciuti, grande amore per la patria e sentimento di fratellanza verso chi, a pochi metri di distanza, subisce un identico destino con una divisa di colore diverso.
Perché non lasciare un grande monito alle generazioni future?
dimenticare è come morire; onore, tributo, un bacio e una preghiera ai nostri nonni.
Dott. Giancarlo Ragone, Presidente Associazione Papà Separati dai Figli.
Caso di revoca di assegno divorzile.
Il caso
Nell'ambito di un procedimento per la revisione delle condizioni di divorzio, l'ex marito chiedeva la revoca dell'assegno per l'ex moglie sul presupposto che fosse inverosimile che la medesima non fosse riuscita a reperire un'attività lavorativa anche oltre vent'anni dopo la separazione, nonché adducendo un sopravvenuto peggioramento delle proprie condizioni economiche a seguito del pensionamento. L'ex moglie si costituiva chiedendo la conferma dell'assegno divorzile e deducendo di essere disoccupata nonostante gli sforzi profusi per cercare un impiego e chiedendo, in via riconvenzionale, l'attribuzione di una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'ex coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro.
Massima
Ai fini della revoca dell'assegno divorzile occorre valutare se vi sia adeguata prova (pur presuntiva) dello svolgimento di un'attività lavorativa, anche solo in termini potenziali, in grado di garantire all'ex coniuge una posizione di indipendenza economica.
La questione
Il decreto in esame affronta due questioni. La prima attiene ai presupposti per la modifica delle condizioni della sentenza di divorzio in punto di assegno a favore dell'ex coniuge, la seconda riguarda l'attribuzione al divorziato di una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro nonché la proposizione della relativa domanda nell'ambito del procedimento per la revisione delle condizioni del divorzio.
Le soluzioni giuridiche
Il Tribunale della Spezia ha rigettato la domanda dell'ex coniuge onerato volta a ottenere la revoca dell'assegno divorzile in favore dell'altro sul presupposto che non fosse stata fornita la prova – anche presuntiva – che l'ex moglie avesse dopo il divorzio svolto effettivamente (o potuto svolgere) un'attività lavorativa tale da garantirle l'indipendenza economica. In particolare, tenuto conto dell'età e del titolo di studio della resistente e considerata la crisi che ha afflitto negli anni recenti il mercato del lavoro, le allegazioni del ricorrente sono state ritenute generiche e non idonee a fondare la domanda di revoca.
Neppure l'invocato peggioramento delle condizioni economiche dell'onerato all'assegno è considerato sufficiente a fondare l'accoglimento della domanda poiché la contrazione dei redditi desumibili dalla documentazione in atti non era tale da giustificare alcuna modifica delle condizioni in essere, anche tenuto conto dell'esiguità dell'importo dell'assegno divorzile.
Confermato quindi il diritto dell'ex moglie all'assegno divorzile, viene ritenuta fondata la domanda volta ad ottenere una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'ex marito e maturata successivamente alla pronuncia di divorzio, quantificando la somma dovuta tenuto conto del netto percepito e delle anticipazioni riscosse dal marito durante la separazione personale. Per il calcolo, il Tribunale adotta il criterio sposato dalla prevalente giurisprudenza ed ancorato al tenore letterale dell'art. 12-bis, l. n. 898/1970, in base al quale l'indennità deve computarsi calcolando il 40% dell'indennità totale percepita alla fine del rapporto di lavoro con riferimento agli anni in cui il lavoro coincise con il matrimonio, risultato che si ottiene dividendo l'indennità percepita per il numero degli anni di durata del rapporto di lavoro, moltiplicando il risultato con il numero degli anni in cui il rapporto di lavoro sia coinciso con il rapporto matrimoniale e calcolando il 40% su tale importo.
Osservazioni.
È noto che la Corte di Cassazione con la sentenza Cass. civ., n. 11504/2017 ha ridelineato i presupposti del diritto all'assegno divorzile.
Pur apparendo al momento prematuro affermare che sia questo l'orientamento consolidato, considerato che si attende la decisione delle Sezioni Unite, è il caso però di rilevare che anche le successive pronunce hanno ribadito il medesimo principio (Cass. civ., sez. I, 22 giugno 2017, n. 15481; Cass. civ., sez. VI, 9 ottobre 2017, n. 23602; Cass. civ., sez. I, 25 ottobre 2017, n. 25327), vale a dire che la valutazione sull'adeguatezza dei mezzi va individuata non nel raffronto con il tenore di vita pregresso, ma nel raggiungimento dell'indipendenza economica e dell'autosufficienza della parte richiedente.
Il decreto in commento si allinea con il nuovo orientamento, laddove, nel valutare la richiesta di revoca dell'assegno divorzile sul presupposto che l'ex moglie inverosimilmente non avesse nei vent'anni trascorsi dalla separazione trovato un'occupazione e comunque sostenendo che aveva svolto attività d'assistenza agli anziani, il Tribunale ritiene che non sia stata fornita la prova adeguata (tenuto conto tra l'altro dell'età e del titolo di studio) dell'effettiva attività lavorativa svolta, attribuendo rilievo non ad una attività di qualsiasi tipo o in qualunque misura retribuita, bensì solo a quella in grado di garantirle una posizione di indipendenza economica.
Ma quando è possibile parlare di raggiunta indipendenza economica? E qual' è il livello minimo di autosufficienza?
In generale, alla luce dell'attuale orientamento della Suprema Corte, per verificare se sussiste o meno l'autosufficienza economica occorre far riferimento ad alcuni indici, con la precisazione che quelli enucleati dalla sentenza della Corte di Cassazione del maggio scorso (e da ritenersi, a parere di chi scrive, non alternativi ma da esaminare complessivamente ed anche tenuto più in generale delle condizioni personali del richiedente l'assegno), sono poi stati in particolare dalla giurisprudenza di merito applicati con alcuni correttivi e operando una valutazione in concreto delle caratteristiche del caso di specie.
Non può infatti prescindersi da un esame della fattispecie concreta onde evitare soluzioni sbrigative che potrebbero penalizzare, ad esempio, il coniuge che durante il matrimonio ha impiegato tutte le proprie energie e risorse in favore della famiglia e che al momento dello scioglimento si trovi privo dei mezzi sufficienti a garantirgli l'indipendenza; in tali casi l'assegno assolve anche alla funzione del riconoscimento dei sacrifici e dell'attività svolta in favore della famiglia. Neppure parrebbe logico ancorare il parametro a limiti di reddito predeterminati in via generale poiché occorre tener conto non solo del contesto sociale di appartenenza ma anche delle oggettive condizioni e del costo della vita, quest'ultima circostanza variabile secondo anche l'ubicazione geografica.
Affermare a priori che l'ex coniuge che lavora non ha diritto all'assegno divorzile pare semplicistico.
Così ragionando, come ha esplicitato Trib. Bologna, n. 1813/2017, si opererebbe un automatismo tra reddito e indipendenza economica, laddove, piuttosto, è sul principio di autoresponsabilità, per il quale non è tutelabile la posizione di chi si sottragga volontariamente allo svolgimento di adeguata attività lavorativa (Cass. civ., 1 febbraio 2016, n. 1858 con riferimento al mantenimento per il figlio maggiorenne), che occorre fare leva. Riprendendo le parole del Tribunale emiliano, i mezzi adeguati di cui all'art. 5, l. n. 898/1970 «vanno valutati nei confronti della persona singola, ma "tenuto conto" dei parametri di cui alla prima parte del comma 6 dell'art. 5. Pur con le relative differenze connesse alla diversa posizione del coniuge e del figlio maggiorenne, appaiono rilevanti anche nel caso oggi in esame i criteri della autoresponsabilità e della incidenza dell'età sull'onere della prova elaborati dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento al figlio maggiorenne».
Il tema è dunque strettamente connesso a quello per cui la possibilità di lavoro personale, che deve essere effettiva, va valutata in relazione anche all'esperienza professionale maturata e al titolo di studio conseguito (v. Trib. Roma, sez. I, 23 giugno 2017) e all'attivarsi nella ricerca di una occupazione da parte del disoccupato (Trib. Treviso, 14 ottobre 2017).
È noto che, in forza dell'art. 9, l. n. 898/1970, la revisione è ammissibile alla luce della sopravvenienza di giustificati motivi successivi alla sentenza che abbia pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, con ciò intendendosi mutamenti che si siano verificati nella sfera economica di una o di entrambe le parti. La giurisprudenza ha affermato che per la revisione dell'assegno di divorzio non è sufficiente la modificazione delle condizioni economiche degli ex coniugi ma occorre che essa sia tale da alterare l'assetto realizzato dalla precedente decisione sull'assegno, in aderenza alla sua funzione “assistenzialedovendo il Giudice verificare l'esistenza del nesso di causalità tra gli eventi addotti e il superamento della precedente situazione (ad es. Cass. civ., 3 gennaio 2011, n. 18).
Tuttavia, alla luce del révirement operato dalla Corte di legittimità con Cass. civ., n. 11504/2017, il parametro per valutare l'an dell'assegno divorzile non è più quello della conservazione del tenore di vita matrimoniale, bensì l'indipendenza o autosufficienza economica dell'ex coniuge beneficiario.
Il tutto sulla base di pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte (con qualsiasi mezzo, anche presuntivo) dall'ex coniuge obbligato, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all'eccezione ed alla prova contraria dell'ex coniuge (Cass. civ., sez. I, 25 ottobre 2017, n. 25327).
La decisione in commento applica i criteri enunciati: con il divorzio i coniugi avevano pattuito un assegno per la moglie sino a che non avesse reperito un lavoro che le consentisse di provvedere a sé stessa adeguatamente.
Come anzidetto, l'adeguatezza oggi deve essere parametrata all'autosufficienza economica e in aderenza a tale principio il Tribunale ha confermato il diritto all'assegno divorzile non essendo stata provato lo svolgimento (anche solo in termini potenziali) di un'attività lavorativa che garantisse alla donna l'indipendenza economica, senza che, nel caso di specie, potesse neppure desumersi una sorta di inerzia colpevole nella ricerca e reperimento di un impiego adeguatamente retribuito.
Relativamente alla seconda questione affrontata dal decreto in commento, vale a dire il diritto dell'ex moglie a una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'ex marito e maturata successivamente alla pronuncia di divorzio, la decisione si allinea con l'orientamento maggioritario.
L'art. 12-bis, l. n. 898/1970 ha da sempre sollevato molte questioni interpretative, sia sulla ratio ispiratrice (di tutela del coniuge economicamente debole ovvero di valorizzazione dell'effettiva partecipazione del coniuge allo svolgimento della compagine familiare) che sui motivi della fissazione al 40% della percentuale di trattamento di fine rapporto, che sui criteri di quantificazione nonché il calcolo della quota spettante.
È possibile concludere che la finalità della norma sia di attuare una partecipazione “posticipata” al patrimonio costruito insieme dai coniugi durante il matrimonio in chiave, quindi, assistenzialistica.
Il diritto di cui all'art. 12-bis, l. n. 898/1970 sorge solo se l'indennità spettante all'altro coniuge maturi al momento della proposizione della domanda di divorzio o successivamente ad essa, poiché in precedenza operano altre disposizioni a tutela del coniuge (la giurisprudenza è conforme: tra le ultime, Cass. civ., 20 giugno 2014, n. 14129; sulla considerazione per cui, prima dell'instaurazione del giudizio divorzile le somme percepite entrano nell'esclusiva disponibilità dell'avente diritto, Cass. civ., 26 novembre 2015, n. 24184; Cass. civ., ord., 29 ottobre 2013).
Il decreto in esame si sofferma su quantificazione e calcolo della somma spettante all'ex moglie, escludendo la rilevanza, in linea con giurisprudenza e dottrina maggioritarie, sia delle anticipazioni percepite dal marito manente separazione personale sia delle somme al medesimo erogate a titolo di incentivo all'esodo, queste ultime poiché non rappresentano somme accantonate durante il pregresso rapporto di lavoro.
Il criterio del computo dell'indennità dovuta viene ben chiarito da Cass. civ., 6 luglio 2007, n. 15299 richiamata dal provvedimento del Tribunale della Spezia. La base su cui calcolare la percentuale ex art. 12-bis, l. n. 898/1970 è costituita dall'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro. Ne deriva che, in base al coordinamento tra il primo e il secondo comma dell'articolo citato, l'indennità dovuta deve computarsi calcolando il 40% dell'indennità totale percepita alla fine del rapporto di lavoro con riferimento agli anni in cui tale rapporto coincise con quello matrimoniale; risultato che si ottiene dividendo l'indennità percepita per il numero di durata degli anni del rapporto di lavoro, moltiplicando il risultato ottenuto per il numero degli anni in cui il rapporto di lavoro sia coinciso con il rapporto matrimoniale e calcolando il 40 % su tale importo.
Circa invece la proponibilità della domanda di attribuzione di quota del TFR nel corso di un procedimento di revisione delle condizioni di divorzio, in passato la giurisprudenza sosteneva che il cumulo non fosse attuabile poiché il presupposto per l'attribuzione della quota del TFR è rappresentato dal giudicato sull'assegno divorzile e quindi la condanna dovrebbe essere una sorta di condanna condizionata al giudicato (ad esempio, Cass. civ., 23 agosto 2006, n. 18367). Successivamente, la giurisprudenza si è andata assestando sull'orientamento contrario (Cass. civ., 12 marzo 2012, n. 3924, conforme a Cass. civ., 14 novembre 2008, n. 27233) sulla base dell'evidente connessione tra le due domande: poiché il riconoscimento dell'assegno di divorzio condiziona l'accoglimento della domanda di attribuzione di una quota del TFR, è giustificata la proposizione di quest'ultima domanda nell'ambito del procedimento di divorzio o di revisione anche in virtù del principio di economia processuale.
Fonte: Trib. La Spezia , 31 ottobre 2017
Massima
Ai fini della revoca dell'assegno divorzile occorre valutare se vi sia adeguata prova (pur presuntiva) dello svolgimento di un'attività lavorativa, anche solo in termini potenziali, in grado di garantire all'ex coniuge una posizione di indipendenza economica.
In senso conforme
Cass. Civ. sez. I, 22 giugno 2017, n. 15481.
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Se il padre impone la nuova compagna ai figli, rischia di perdere l'affidamento condiviso?
Attualmente, nella normalità dei casi, i giudici tendono a favorire il regime dell’affidamento condiviso, ove entrambi i genitori, separati o divorziati, concorrono alle decisioni importanti sulla vita dei figli, quali, per citare solo alcuni esempi, quelle relative alla salute, alla scelta della residenza e della scuola nonché dell’educazione religiosa.
L’affidamento condiviso comporta che padre e madre abbiano la stessa dignità e importanza nella vita del figlio e non esista un genitore più importante dell’altro. Applicando tale regime di affidamento, si elimina il rischio che solo uno dei due sia quello deputato alle decisioni importanti inerenti al figlio mentre l’altro sia relegato esclusivamente a un ruolo marginale nella sua vita.
Certamente, il medesimo principio sussiste anche per i genitori non sposati, che hanno cessato la loro convivenza o che non hanno mai vissuto insieme.
Diversamente, nell’ affidamento esclusivo (detto anche monogenitoriale), il genitore privato dell’affidamento viene, di fatto, escluso dalle decisioni pregnanti sulla vita del figlio, poiché le stesse vengono assunte esclusivamente dal genitore affidatario.
Tale tipo di affidamento non si verifica frequentemente e viene disposto dal giudice soltanto in presenza del verificarsi di gravi condizioni, vale a dire quando il genitore risulti inidoneo, cioè incapace di comprendere le reali esigenze del figlio.
La suddetta incapacità può manifestarsi in vari modi e deve essere accertata, in sede giudiziale, da un esperto di fiducia nominato dal giudice che può essere uno psicologo, psicoterapeuta o psichiatra.
Per fare degli esempi, l’inidoneità genitoriale che può portare alla scelta dell’affidamento esclusivo da parte del giudice è rappresentata dal compimento di reati, integrati da condotte violente e aggressive, soprattutto se tenute in presenza dei figli minori, dando così vita alla violenza assistita, ovvero da maltrattamenti, anche nella forma del disinteresse grave verso il figlio, o ancora dall’inosservanza dei doveri genitoriali, compreso il mancato mantenimento, oppure dall’irreperibilità a seguito di allontanamento dalla casa coniugale, o dal trasferimento in altra città o all’estero, con il figlio, e senza il consenso dell’altro genitore.
In tali circostanze, il giudice dovrà compiere accertamenti approfonditi in fase istruttoria e decidere tenendo conto delle valutazioni dell’esperto o dei Servizi Sociali poichè, nei casi più complessi, come detto, egli può avvalersi sia del parere di un esperto, in qualità di consulente tecnico, che dei Servizi Sociali.
Si evidenzia, altresì, che i genitori non possono concordare tra loro l’affidamento esclusivo dei figli, che non è nè automatico nè semplice da ottenere, e non può essere oggetto di contrattazione tra di essi.
In conclusione, per rispondere allo specifico quesito di oggi, evidenzio che la più recente giurisprudenza di legittimità afferma che l’affidamento dei figli minori resta congiunto anche se il padre, subito dopo la separazione dalla moglie, assume delle condotte in cui impone la presenza della nuova compagna ai figli, dando inizio a una convivenza con la stessa nel medesimo condominio dove risiedono moglie e i figli, e presentandosi al primo incontro di supporto in consultorio insieme alla compagna.
Evidentemente, nella fattispecie, a parere della Suprema Corte, i comportamenti assunti dal padre non comportano quella gravità necessaria da giustificare l’affidamento esclusivo a uno solo dei genitori, a detrimento del percorso educativo dell’altro genitore affianco ai figli.
Che cos'è il Piano Genitoriale?
Funzione e consigli pratici per la sua compilazione.
Per anni, già dal 2009, nel corso dei vari convegni ove ho dibattuto nella mia veste di Presidente dell’Associazione “Papà Separati dai Figli” in tema di crisi familiari, siano esse famiglie matrimoniali o di fatto, ho sostenuto - in certi casi non senza critiche mossemi in particolare da certa avvocatura e da talune associazioni familiaristiche - la necessità di prevedere nei procedimenti conseguenti tali crisi - giudiziali o consensuali - una proposta ben articolata di piano genitoriale da allegare agli atti nell'interesse dei figli, in specie minori.
In coerenza a tanto, lo staff professionale dell’Associazione “Papà Separati dai Figli” si è sempre caratterizzato nella redazione di accordi completi, puntuali e previdenti tra le parti ovvero quanto più sgombri da certa ambiguità, tesi al raggiungimento delle migliori ed obiettive modalità dei genitori da utilizzare per una gestione quanto più corretta ed “alla luce del sole” dei figli minori.
Oggi, finalmente, e con mia grande soddisfazione, con la Riforma Cartabia ciascun genitore ha l’obbligatorietà del deposito di tale Piano Genitoriale, contenente la fotografia della vita e dell’organizzazione dei minori.
Allo scopo, dunque, di contribuire ad una maggiore chiarezza su tale importante documento che può intendersi come “guida del genitore separato”, nel focus successivo ne saranno delineate a cura dell’Avv. Maria Grazia Di Nella e della Psicologa Dalana Di Gianni le possibili funzioni anche in un’ottica prospettica, offrendo pratici suggerimenti per la sua compilazione.
Dott. Giancarlo Ragone, Consulenza legale e redazione di Piani Genitoriali strutturati ed altamente strutturati, Presidente dell’Associazione “Papà Separati dai Figli”.
Sul Piano Genitoriale.
Il quadro normativo.
L'emendamento governativo alla Legge di bilancio 2023, 29 dicembre 2022, n. 197 ha anticipato alla fine del mese di febbraio 2023 l'entrata in vigore della Riforma Cartabia che ha inciso in modo rivoluzionario nei procedimenti in materia di famiglia. L'art. 3, comma 33, d. lgs 149/2022 ha infatti introdotto nel codice di procedura civile, nel Libro II, il nuovo Titolo IV bis che regola un rito unico per le controversie in materia di persone, minorenni e famiglie che ha quale obbiettivo primario l'effettività della tutela dei bambini, nelle crisi familiari siano esse famiglie matrimoniali o di fatto.
Una delle novità del nuovo rito unico nei procedimenti conseguenti la crisi familiare, è l'obbligatorietà per ciascun genitore di figli minori, di depositare oltre alla “disclosure” sulla propria situazione reddituale e patrimoniale, un documento chiamato “piano genitoriale” la cui vera funzione ha sollevato un interessante dibattito.
La previsione normativa di tale nuovo adempimento è contenuta all'interno del nuovo Titolo IV bis c.p.c. dal titolo “Norme per il procedimento in materia di persone, minorenni e famiglie” e precisamente nell'art. 473-bis.12 c.p.c. che all'ultimo comma specifica che il piano genitoriale “indica gli impegni e le attività quotidiane dei figli relative alla scuola, al percorso educativo, alle attività extrascolastiche, alle frequentazioni abituali e alle vacanze normalmente godute”;
nell'art. 473-bis.18 c.p.c. che richiama i genitori al dovere di leale collaborazione nel rappresentare la situazione economica; nell'art. 473-bis.50 c.p.c. che prevede il potere del Giudice - in caso di mancata conciliazione - di formulare una proposta di piano genitoriale nell'interesse dei minori, tenendo conto dei piani genitoriali depositati da ciascun genitore; nell'art. 473-bis.39 c.p.c. che prevede il potere del giudice di sanzionare i comportamenti dei genitori in violazione degli obblighi assunti con il piano genitoriale condiviso ovvero accolto ai sensi dell'art. 473-bis.50 c.p.c.
Quanto invece alla compilazione del piano genitoriale, essa dovrà avvenire nel rispetto dei principi sull'affidamento condiviso di cui all'art. 316 c.c. sulla modalità di esercizio della responsabilità genitoriale, all'art. 316-bis c.c. sul concorso dei genitori al mantenimento dei figli e all'art. 337-ter c.c. che sancisce il diritto dei figli a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori tenendo altresì conto del diritto dei minori a mantenere un rapporto con le rispettive famiglie di origine sancito dall'art. 317-bis c.c.
La funzione rappresentativa del piano genitoriale.
Molto si è discusso sulla reale finalità del legislatore allorquando ha reso obbligatoria la compilazione di tale documento: vi era chi lo interpretava come un vero e proprio programma educativo dei genitori, una sorta di guida e di riferimento in occasione di qualsiasi problema o contrasto che si dovesse in seguito presentare e chi invece attribuiva a tale documento una finalità puramente rappresentativa, paragonandolo ad una fotografia del tenore di vita familiare goduto dai minori sino alla crisi familiare.
Tale ultima interpretazione dopotutto era ed è coerente con uno degli obbiettivi della Riforma Cartabia: quello di “giocare a carte scoperte”, riducendo il più possibile gli accordi raggiunti “al buio”, vale a dire senza che le parti abbiano un'effettiva conoscenza della reciproca situazione reddituale e patrimoniale.
Ed infatti, i primi commi dell'art. 473-bis.12 prevedono che in occasione del deposito del primo atto, qualora si svolgano domande di contributo economico (siano esse per un coniuge, per un congiunto civilmente, per un convivente ovvero per i figli), le parti debbano depositare oltre alle ultime tre dichiarazioni dei redditi anche gli estratti conto ed i documenti finanziari degli ultimi tre anni relativi a conti intestati in via esclusiva e cointestati con terzi in essere ovvero chiusi negli ultimi tre anni nonché documenti attestanti la titolarità di beni immobili e beni mobili registrati e di quote sociali comprensive della documentazione relativa al titolo di acquisto.
Chiaramente ispirato alla funzione di “guida del genitore separato”, il primo Modello di piano genitoriale vede la luce pochi giorni dopo l'entrata in vigore della Riforma Cartabia: il Tribunale di Civitavecchia con le sue ventidue pagine da compilare, pubblica il “Piano Genitoriale Altamente Strutturato” suddiviso su 20 punti (Piano Genitoriale Civitavecchia).
Dopo il richiamo ai principi generali della genitorialità e ai diritti dei figli, il documento chiede ai genitori uno sforzo non indifferente; essi dovranno codificare con minuzia ogni aspetto organizzativo dei figli negli ambiti più importanti. Partendo dalle scelte educative, religiose, sanitarie e assistenziali, i genitori dovranno darsi anche le regole di gestione della separazione: dalla comunicazione con i figli e tra genitori per arrivare alla redazione del calendario settimanale, festivo ed estivo e finanche alla condivisione di regole che riguardano i nuovi compagni, le foto dei figli sui social, le famiglie allargate e gli eventi speciali.
A soccorrere i genitori spaesati e spaventati dalla complessità di tale primo Piano genitoriale “troppo strutturato” interviene alla fine del mese di maggio u.s., il Consiglio Nazionale Forese con un modello molto più snello di sole sei pagine e due sezioni (la prima con scopo rappresentativo e la seconda con scopo proiettivo) che - come si legge nel Comunicato del 23 maggio 2023 sottoscritto dal Presidente Avv. Francesco Greco - si propone di fornire una “fotografia” della situazione familiare esistente al momento del sopraggiungere della crisi, con un occhio alle modalità utilizzate dai genitori per la gestione dei figli minori (Piano Genitoriale CNF).
Ecco allora che i genitori devono dare qualche informazione relativa alle auto e alle moto in uso, alla presenza dei nonni e/o di baby-sitter, all'organizzazione scolastica, agli sport, alle vacanze per poi passare ad immaginare sinteticamente la “Routine settimanale”, estiva e festiva.
Partendo da tali indicazioni il Tribunale di Pescara (Piano Genitoriale Pescara) e quello di Varese (Piano Genitoriale Varese) adottano modelli ancora più sintetici sia nella parte dedicata ad un prospetto di sintesi che nella parte dedicata all'organizzazione dei figli ove di fatto manca la parte educativa e progettuale, limitandosi a fotografare il “presente”, l'organizzazione effettivamente vigente al momento dell'instaurazione del giudizio.
La sinteticità di tali modelli però ed il rischio connesso di svuotare di senso educativo una delle novità più importanti della Riforma, viene colta dall'Unione Nazionale Camere Minorili (Piano Genitoriale UNCM) e da alcuni Tribunali italiani che sentono l'esigenza di arrivare a delineare un modello che tenga insieme entrambe le esigenze: quello della completezza delle informazioni rappresentative e quello educativo proiettato al futuro della famiglia separata.
Ecco allora nascere i Modelli adottati dal Tribunale di Milano (Piano Genitoriale Milano) e dal Tribunale di Firenze (Piano Genitoriale Firenze) che chiedono ai genitori di indicare dove e con chi vive il minore al momento in cui è depositato il ricorso nel procedimento e se ci sono altre persone conviventi e quali rapporti hanno con lui, ad esempio altri figli di uno solo dei suoi genitori; la scuola frequentata, con l'indicazione dell'ammontare di rette e spese accessorie in caso d'iscrizione a istituti o Università privati, i costi preventivati per eventuali corsi all'estero, l'esigenza di assistenza o sostegno durante le lezioni, ad esempio per disturbi dell'apprendimento.
Sul fronte della salute chiedono la specifica delle patologie sofferte, della percezione di indennità, della disponibilità di polizze sanitarie. Ma anche gli sport praticati, a partire da quando e con i relativi esborsi. Affinché possa decidere con più consapevolezza, il Giudice deve conoscere la giornata-tipo: chi si occupa del minore attualmente, se entrambi i genitori lavorano, con quali orari, e se ci sono nonni, altri congiunti o una baby-sitter che se ne prendono cura quando mamma e papà sono impegnati fuori casa o durante le vacanze scolastiche e le festività. Avranno importanza le frequentazioni e la permanenza presso altri parenti, come zii e cugini, e altre figure di riferimento perché quando “la coppia scoppia”, il giudice deve conoscere quali sono le persone che possono essere di supporto ai genitori nella gestione dei minori.
Inoltre anche nel piano genitoriale occorrerà dare specifiche sulle case che il minore ha avuto a disposizione - sia in relazione alla casa familiare sia in relazione alle case vacanza in Italia o all'estero - specificando se gli immobili sono di proprietà, in locazione (con indicazione dei canoni, data di stipula e durata), comodato o detenuta ad altro titolo, la superficie e il numero di vani; se ciascun genitore dispone di un'autonoma soluzione abitativa, le informazioni devono riguardare entrambi gli immobili, in modo da individuare sistemazioni adeguate. A completare l'istantanea sul tenore di vita del minore, le altre attività familiari: la consuetudine di viaggi, l'abbonamento a teatro o allo stadio, l'iscrizione a circoli ricreativi, culturali o sportivi con relativa quota.
Ma è nella compilazione della seconda parte che il “piano genitoriale” di questi due Tribunali assolve alla funzione per cui è stato pensato dalla Riforma Cartabia, vale a dire alla sua funzione “evolutiva e tutelante” per i minori. Nella seconda parte viene chiesto ai genitori di progettare la nuova organizzazione dei figli successivamente alla cessazione della loro convivenza, la cui finalità è quella di aiutare il Giudice ad adottare in sede di prima udienza i provvedimenti provvisori a tutela dei minori che oltre alla sofferenza emotiva che provano per non avere più una famiglia unita, potrebbero correre il rischio di una sofferenza psichica, se i loro bisogni di sviluppo non venissero rispettati.
Il Piano Genitoriale può avere anche una funzione protettiva per il minore poiché nel momento in cui si andrà a redigerne la versione futura, più questo sarà centrato sulle esigenze evolutive del minore e maggiore sarà la percentuale di successo rispetto al possibile danno che si realizzerebbe nella crescita del minore, grazie al rispetto delle sue esigenze di sviluppo.
In sintesi, un Piano Genitoriale ben strutturato e calibrato sulle necessità del minore ha la funzione di evitare o contenere i possibili danni evolutivi che si potrebbero creare al minore, se il Piano Genitoriale avesse al centro le richieste genitoriali.
Prospettiva psicologica del piano genitoriale.
Quando una famiglia si separa, il pregiudizio che i figli possono subire è direttamente proporzionale al mancato rispetto dei loro bisogni di sviluppo e il range entro il quale si colloca il possibile danno evolutivo patito dal minore, va dall’instaurarsi di una sofferenza psichica che, in certi casi, ne rallenta l’evoluzione e che, nei casi più gravi, comporta addirittura una regressione dello sviluppo, fino allo strutturarsi di una psicopatologia.
Per sofferenza psichica non si intende tanto il dolore che il minore prova per la perdita della famiglia unita, quanto quell’indicatore emotivo che evidenzia una disfunzionalità nel sistema psico-relazionale del minore: bambini che non vogliono incontrare un genitore, bambini o ragazzi che adottano comportamenti auto e/o etero lesivi, bambini che faticano a separarsi dalla madre, ragazzi oppositivi, ragazzi che si rifiutano di andare a scuola, etc…
Se tali segnali si presentano in relazione alla separazione dei genitori o in seguito ad essa è evidente che il sistema genitoriale non ha saputo funzionare e che è necessario un intervento a supporto dei genitori e a tutela del minore.
Se a questo si aggiunge che molto spesso la separazione si trasforma in un’accesa conflittualità tra i coniugi, dove i bisogni dei figli sono oscurati dal prevalere delle istanze genitoriali, fino al punto che i minori scompaiono dalla mente degli adulti di riferimento, si comprende quanto possa diventare serio il pericolo di un pregiudizio per la prole.
Suddette situazioni si registrano maggiormente in quelle famiglie in cui uno o entrambi i genitori sono portatori di una disfunzionalità che inficia, limita o addirittura annulla totalmente la capacità genitoriale dell’adulto di riferimento (non sono rari i genitori a cui è sospesa o revocata la responsabilità genitoriale). Si tratta, in sostanza, di tutte quelle configurazioni familiari ad alta complessità (genitore/i che presentano una psicopatologia, una tossicodipendenza, una condotta che ha portato a conseguenze di natura penale, etc…) in cui la sofferenza dell’adulto non permette a quest’ultimo di assolvere alla propria funzione di cura e di protezione nei confronti del figlio e il bambino è di fatto abbandonato nella sua crescita.
Prendersi cura di un minore significa invece rispettarne i bisogni di sviluppo, intendendo con questa espressione il favorire, prevedere, comprendere e rispondere a tutte le necessità, età dipendenti, di natura fisiologica e relazionale di cui il minore necessita per crescere. Esigenze di crescita quindi che, se soddisfatte, permettono al minore una sana evoluzione psichica e relazionale e lo aiutano ad accrescere le sue risorse per affrontare le tappe successive dello sviluppo in corso.
L’uso del Piano Genitoriale, soprattutto in queste situazioni ad alta complessità, può avere una funzione evolutiva e tutelante tutte le volte che il professionista, consapevole dei bisogni evolutivi dei minori, riuscirà a sostenere il genitore a pensare in termini evolutivi e strutturerà con lui un Piano Genitoriale (anche molto dettagliato se necessario) che avrà la funzione di rispondere alle esigenze di crescita del minore e non a quelle dell’adulto di riferimento.
La stesura di un Piano Genitoriale che abbia al centro il minore avrà la funzione di evitare e/o di contenere il danno evolutivo che le separazioni conflittuali possono arrecare ai figli, puntando prima di tutto l’attenzione sulla responsabilità genitoriale, per questo hanno un’importanza notevole, soprattutto nei contesti giudiziari.
Di seguito una breve sintesi degli aspetti da tenere in considerazione nella stesura del Piano Genitoriale affinché siano rispettati i bisogni di sviluppo del minore, in base alla fascia di età di appartenenza:
Bambini 0-10 mesi:
sono raccomandati contatti ripetuti e frequenti con ciascun genitore affinché entrambi acquisiscano le competenze necessarie ad un buon caregiving (se i nonni/zii sono figure presenti e disponibili nella vita del nipote tale raccomandazione va estesa anche a loro, tenuto conto che non devono sostituire il genitore);
i contatti dovrebbero prevedere un tempo sufficiente per i pasti, il gioco, il bagnetto, le coccole, il pisolino (i nonni possono coadiuvare i genitori in tali attività). I contatti devono tenere presente prima di tutto le esigenze di allattamento del minore e il suo bisogno di riposo;
il bambino non dovrebbe stare lontano da ciascun genitore per più di pochi giorni (è consigliabile non superare le 24 ore), poiché il minore non è ancora in grado di mantenere la traccia mnesica delle figure di riferimento, se non le frequenta regolarmente e perché il bambino riconosce già chi si prende cura di lui;
i genitori dovrebbero poter condividere le abitudini e le attività del bambino, nonché quanto avviene durante il giorno sia per favorire la reciproca conoscenza del figlio, le cui abitudini mutano velocemente a questa età, sia per garantire al bambino coerenza e stabilità nei due ambienti di vita.
Bambini 10-24 mesi:
Ciascun genitore dovrebbe partecipare alla routine quotidiana, che comprende pasti, bagnetto, mettere il bambino a letto e svegliarlo dopo il sonnellino. Questo aiuterà il bambino a sviluppare una relazione sicura e consentirà ad entrambi i genitori di padroneggiare le competenze per la gestione del figlio e rappresenterà una base di fiducia tra i genitori che dovranno iniziare a suddividersi le notti;
periodi di separazione superiori ai 2/3 giorni possono interferire con il senso di sicurezza e di stabilità del bambino. Gli impegni lavorativi dovranno essere bilanciati con i bisogni del bambino affinché vi sia un regolare coinvolgimento con ciascuno dei due genitori durante la settimana e nei fine settimana. Nel caso non sia possibile rispettare la regolarità di cui necessita il minore è raccomandabile introdurre il pernotto quando gli impegni lavorativi non saranno un ostacolo alla frequentazione o quando il bambino sarà più grande (ogni situazione deve comunque tenere conto delle caratteristiche del minore poiché ci sono bambini che hanno maggiore facilità a separarsi).
in ciascuna abitazione dovranno essere seguiti modelli e routine simili di cura del bambino, per garantire una continuità;
si possono introdurre le videochiamate (ricordarsi che il bambino di due anni non ama lunghe conversazioni telefoniche e pochi minuti sono un tempo sufficiente per mantenere il contatto genitore/figlio).
Bambini 25-36 mesi:
Le transizioni possono essere difficili poiché il bambino ha acquisito delle abitudini e necessita di avere un contesto strutturato e familiare in entrambi i contesti di vita che gli garantisca il rispetto della sua routine;
la genitorialità deve adattarsi per soddisfare i bisogni del bambino. Modi simili di gestire gli eventi produrranno un senso di benessere nel bambino (orario di frequentazione nido, abitudini relative agli orari dei pasti e del sonno, nonché gli eventi maggiori);
telefonate ad orari regolari possono essere un buon modo per mettersi in contatto, per il genitore e per il figlio. Questo mantiene le relazioni nel presente, ma non si dovrebbero superare i pochi minuti;
è meglio che i pernotti siano distribuiti lungo la settimana (e non solo nel fine settimana), per evitare che la fisiologica separazione sia vissuta come un distacco;
i nonni possono aumentare la loro presenza a sostegno del genitore, ma non sostituirlo.
1. Prima infanzia (0-3 ANNI).
La primissima infanzia è il momento più delicato per la vita di un bambino, perché in questi anni si pongono le basi per la strutturazione della sua personalità futura attraverso l’instaurarsi di uno stile di attaccamento che può essere funzionale alla sua crescita (attaccamento sicuro) oppure che può rappresentarne un grande limite (attaccamento disorganizzato). I bisogni che il minore presenta in quest’epoca non sono solo quelli primari (nutrimento), ma sono soprattutto bisogni di natura relazionale: il modo in cui i genitori interagiscono con il figlio, nei suoi primi anni di vita, darà forma a dei modelli operativi interni per mezzo dei quali il bambino penserà a sé stesso e alla relazione con l’altro (stile di attaccamento). Ad esempio, se i bisogni relazionali di cura, protezione, sicurezza e contenimento saranno sufficientemente soddisfatti, il bambino avrà la percezione di essere amato e di essere importante, ma avrà anche la percezione di essere in una relazione dove l’altro è degno di fiducia, è affidabile ed è un punto di riferimento per lui e per la sua crescita. Grazie a queste esperienze, ripetute nel tempo, il minore svilupperà un senso di fiducia in sé e nell’altro (attaccamento sicuro) e crescerà sano, viceversa si andranno o si struttureranno degli stili di attaccamento disfunzionali che ricadranno negativamente sia sul modo in cui il minore pensa a se stesso, in termini di valore e di autostima, sia sul modo in cui il minore pensa al valore della relazione con l’altro.
Altro aspetto da tenere seriamente in considerazione, è relativo alla velocità con la quale il bambino muta i suoi bisogni fisiologici e le sue abilità relazionali, in questi primi tre anni di vita, passando dalla totale dipendenza dall’adulto di riferimento, alla sua prima autonomia. Se i genitori si separano nei primi tre anni di vita del figlio, sarà necessario tenere in considerazione gli aspetti che seguono, affinché il PG possa garantire la costruzione di un contesto che dia stabilità e continuità al minore, in quanto si tratta di elementi indispensabili al suo benessere.
2. Infanzia (3-6 ANNI).
Quanto appena detto per la primissima infanzia può essere ripreso anche per l’infanzia, ma in questo caso se la separazione avviene in questa fase e se la fase precedente è stata sufficientemente serena, il bambino avrà sperimentato un tempo in cui le interazioni sono state positive e avranno permesso la costruzione di un primo equilibrio relazionale con le figure di riferimento.
Questo è il periodo in cui il bambino deve acquisire autonomia e deve iniziare necessariamente a separarsi dalla figura materna. Chiaramente, la separazione emotiva dalla madre deve avvenire in maniera graduale e nello strutturare nuove abitudini relazionali si deve tenere conto di quelle che il minore ha maturato fino a questo momento.
Si raccomanda quindi di seguire le indicazioni che seguono, tenendo conto delle abitudini del bambino e di introdurre i cambiamenti in maniera graduale.
entrambi i genitori dovranno diventare competenti ed essere a proprio agio nell’aiutare il figlio a mantenere una routine quotidiana e a sviluppare autonomia, in modo da preparare il figlio alle esigenze del futuro contesto scolastico e relazionale;
è importante considerare la quota di tempo che ciascun genitore ha dedicato alla cura del figlio prima della separazione, affinché non si strutturi un PG troppo distante dalla realtà del bambino, ma allo stesso tempo si dovrebbe prevedere, con la dovuta gradualità, l’apertura a nuove abitudini, compresi i pernotti dal padre e il tempo che può aumentare insieme alla figura paterna;
al fine di una maggiore presenza paterna nella vita dei figli, si deve inserire la partecipazione del padre nella routine quotidiana del bambino, come i pasti, il gioco, il bagnetto, la lettura, lo sport, le visite, la scuola, gli amici, etc;
se entrambi i genitori sono stati coinvolti in tutti gli aspetti della cura del figlio, prima della separazione, il bambino potrà essere capace di stare lontano da ciascun genitore per 2 o 3 giorni. (Ricordarsi che molto dipende anche dalla personalità del bambino).
3. Fanciullezza ( 6-10 anni)
In questi anni, il bambino fa il suo ingresso nella scuola e si apre una fase completamente nuova per lui: l’esterno diventa richiedente e la performance del minore si traduce nella misura delle sue debolezze e/o capacità, motivo per cui diventa sensibile ai giudizi e può sviluppare un senso di vergogna o di autostima.
Sempre in questa fase, il bambino è maggiormente esposto all’esterno del mondo familiare poiché si confronta con altri modelli di riferimento e con i pari. È quindi un momento che richiede un grande impegno cognitivo ed emotivo, per questo, se la separazione avviene in questa fase, si corre il rischio che il minore regredisca o che non sia libero di investire le sue energie all’esterno poiché i problemi familiari lo allontanano dal manifestare i suoi bisogni.
La famiglia che si separa in questa fase è un cambiamento che si inserisce in un periodo di transizione del minore: il bambino deve costruire un nuovo equilibrio (soprattutto se la separazione avviene al passaggio alle elementari o nel primo anno di elementari) oppure quando lo ha già costruito, ma le sue energie sono tutte fisiologicamente rivolte all’esterno e da qui verranno sottratte, se sarà eccessivamente coinvolto nella separazione dei genitori.
In questa fase, padre e madre hanno esattamente lo stesso “peso emotivo” nella vita del figlio, se entrambi vi si dedicano (e vi si sono dedicati in passato fino ad oggi) e svolgono la loro funzione in maniera adeguata. Entrambi possono seguire il figlio nei compiti e nelle attività extrascolastiche, se desiderosi di farlo.
Se la separazione avviene in questa fase, è bene valutare le reali disponibilità dei genitori nei confronti dei figli e le abitudini fino a quel momento maturate, prima di introdurre i cambiamenti ritenuti necessari, secondo lo schema che segue:
la programmazione della routine del bambino deve tenere conto dell’impegno scolastico e ricreativo del minore e i genitori dovrebbero bilanciare la loro presenza nei vari contesti di vita del figlio;
è necessario definire una routine per lo studio a casa e per le comunicazioni con gli insegnanti. Per un bambino è importante strutturare il tempo dedicato allo studio e questo dovrebbe rimanere inalterato in entrambe le abitazioni. È importante anche che entrambi i genitori conoscano la scuola, le insegnanti, le attività del figlio e la situazione sanitaria del bambino pertanto il PG dovrebbe indicare che i colloqui, le visite, gli accompagnamenti a scuola e agli allenamenti etc. siano bilanciate tra i genitori;
un numero minore di transizioni durante la settimana è correlato positivamente con una migliore riuscita nei progetti scolastici. Questo significa che il bambino può aumentare i giorni di frequentazione anche durante la settimana, ma è sempre bene evitare di fare troppi passaggi.
4. Preadolescenza (10-13 ANNI).
Questo periodo della vita è segnato dai cambiamenti fisici, psichici e sociali del ragazzo/a, ma anche dalla sua appartenenza al gruppo dei pari con il quale il minore si identifica e al quale si aggrappa per effettuare la prima separazione psichica dalla famiglia.
Le competenze cognitive a carattere riflessivo e autocritico accrescono e favoriscono un tipo di pensiero più soggettivo e differenziato rispetto a quello della famiglia di origine. I ragazzi con uno sviluppo nella norma iniziano ad esplorare il mondo e le relazioni esterne alla famiglia. Questa è anche l’epoca del conflitto che sostiene la differenziazione e favorisce la costruzione dell’identità psichica e corporea del futuro giovane adulto.
Se la separazione avviene in quest’epoca è più facile che il ragazzo perda il contenimento familiare e velocizzi il suo svincolo, ma è possibile anche il contrario ovvero che il ragazzo regredisca o ancora peggio che si schieri con un genitore contro l’altro. Per questi motivi è sempre bene considerare le seguenti necessità e contenere i possibili danni di una separazione disfunzionale in questa fase della vita del minore:
i contatti con entrambi i genitori dovrebbero essere frequenti e significativi e questo è possibile se i contatti con entrambi i genitori sono strutturati in maniera flessibile e consistenti;
le programmazioni della frequentazione possono prevedere tempi più lunghi di lontananza da uno o dall’altro genitore o da entrambi (vacanze studio ad esempio);
è una fase della vita in cui le telefonate devono avvenire in autonomia tra il genitore e il figlio;
le regole e le routine nelle due abitazioni dovrebbero avere coerenza e continuità (orari di rientro, paghetta, amici a dormire, etc…);
è importante che i genitori abbiano uno spazio per parlare del loro figlio e delle sue necessità non in sua presenza (mail, telefonate, incontri con un professionista) al fine di condividere informazioni e regole genitoriali;
è importante che i genitori coinvolgano il figlio insieme quando devono assumere delle decisioni importanti, anche se la valutazione definitiva spetta a loro.
5.Adolescenza (14-18 ANNI).
Il compito di sviluppo principale dell’adolescente è quello di intraprendere la strada verso la costruzione della propria identità sociale, sessuale, intellettuale e relazionale. È un compito che richiede molte energie psichiche e il problema dei ragazzi di questa età è proprio quello di non riuscire a convogliare le risorse che possiedono verso i loro bisogni perché coinvolti in relazioni disfunzionali, quando i genitori si separano e non rispettano i bisogni evolutivi dei figli. Le problematiche a cui vanno incontro sono simili a quelle precedenti, per questo motivo si suggerisce di definire bene i confini tra il sottosistema genitoriale e quello filiale e rispettare le seguenti indicazioni:
più di ogni altra fascia di età, gli impegni, i programmi e le inclinazioni del figlio hanno una priorità poiché sono rappresentativi della costruzione in corso della sua identità soggettiva;
la frequentazione può diventare “flessibile” e “creativa” poiché va ad inserirsi in spazi nuovi o con nuove modalità, ma non deve perdere del tutto la struttura poiché essa è sinonimo di contenimento;
aumenta la tolleranza del figlio nello stare lontano dei genitori, mentre aumenta la necessità di comunicazione tra i genitori, al fine di regolare e pensare alle necessità scolastiche, sanitarie, sportive, relazionali del figlio.
Conclusioni.
All’esito della disamina dei vari Piani Genitoriali analizzati, possiamo affermare che un Piano Genitoriale ben dettagliato può essere un efficace strumento di tutela del minore assolvendo a più funzioni: rappresentanza oggettiva del tenore di vita, contenimento del conflitto, ma soprattutto valenza evolutiva per il figlio e tutelarlo dal coinvolgimento nella separazione dei genitori affinché esso possa progredire lungo il suo cammino di crescita e i suoi bisogni di sviluppo siano rispettati.
E se la madre decide di trasferirsi per lavoro, può portare con sè i figli?
La madre che decide di trasferirsi - in questo caso a più di 800 km di distanza dall’ex marito - violerebbe il diritto dei figli minori a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, nonché di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi.
Infatti, il Tribunale di Napoli dopo aver dichiarato lo scioglimento del matrimonio tra due coniugi, disponeva la prosecuzione del giudizio sugli eventuali provvedimenti accessori per i figli minori. Durante il procedimento di divorzio, la madre richiedeva la conferma degli accordi presi durante la separazione riguardo alla custodia condivisa dei figli. Successivamente, chiedeva di trasferirsi con i minori per motivi di lavoro a circa 800 km di distanza dall’ex marito.
Il Tribunale con ordinanza, senza modificare il regime di affido condiviso e senza alcuna istruttoria, accoglieva la richiesta di trasferimento sulla base dell'asserita offerta di lavoro.
Respinta la sospensione dell’ordinanza su richiesta dell’ex marito, questi ricorre in Cassazione, obiettando che il trasferimento gli impedirebbe di frequentare regolarmente i figli, difatti la considerevole distanza tra le due città, non consentirebbe frequentazioni giornaliere, se non della durata di poche ore, ma al contrario solo visite di più giorni, data la notevole durata del viaggio. Infine contesta che il giudice non abbia valutato adeguatamente l'impatto del trasferimento sull'interesse dei minori.
In tale scenario, la Corte ammette che il trasferimento potrebbe configurare una violazione del diritto alla bigenitorialità anche in ragione del fatto che le sole dichiarazioni dei minori nell’essere contenti di seguire la madre in una nuova città, non si ritengono sufficienti a giustificare il trasferimento, occorre perciò valutare l’impatto di tale trasferimento sulla frequentazione del padre e sull’interesse dei minori a cambiare vita, frequentazioni e ambiente. Per tali ragioni la Corte cassa il provvedimento impugnato e rinvia la causa alla Corte di Appello di Napoli.
Fonte: Cass. Civ. sez. I, 7 maggio 2024, n. 12282.
Figli collocati presso il papà se risultano maggiori garanzie di interesse per loro rispetto alla madre.
Il perseguimento del miglior interesse del figlio minore e il diritto alla bigenitorialità hanno maggior peso rispetto al legittimo interesse del singolo genitore a voler, legittimamente, vivere una nuova vita sentimentale (nella fattispecie, matrimoniale)?
Nella vicenda qui in commento, i genitori, al termine della loro relazione, hanno congiuntamente regolamentato i rapporti relativi al figlio minorenne con accordo recepito con decreto dal Tribunale.
Oggi la ricorrente chiede l'autorizzazione al trasferimento in altra città, peraltro non poco distante dall'attuale, portando quale unica sopravvenienza le nozze contratte con il compagno, ora marito. Non vi sono, pertanto, motivazioni economiche, dato che la ricorrente lavora stabilmente nella città attuale e non ha ancora reperito alcuna attività lavorativa nella città dove vorrebbe trasferirsi insieme al figlio.
Il Tribunale di Monza, nella sentenza qui in commento, considera che “l'eventuale trasferimento costituisce, dunque, una libera scelta per la madre e non una necessità”, ritenendo che l'eventuale autorizzazione al trasferimento costituirebbe grave lesione del diritto alla bigenitorialità del minore, non giustificato dal perseguimento di un interesse per lui superiore.
Il Collegio, invero, rammenta che in questa materia il focus deve essere posto sui minori e sui loro bisogni prima che su quelli degli adulti e osserva che, allo stato, il figlio minore gode pienamente della presenza di entrambi i genitori e trascorre con loro tempi sostanzialmente simili.
Emerge, altresì, dalla memoria del nominato curatore speciale, un ulteriore elemento prezioso su come il minore sia un bambino allegro, empatico e socievole, così come dalla relazione stilata dalla Scuola Materna frequentata dal medesimo si legge di un bambino sereno che ha instaurato una buona relazione con le insegnanti e con i propri pari e che vive con interesse e impegno le proposte didattiche, risultando entrambi i genitori interessati al suo andamento scolastico.
In aggiunta, dalla memoria del curatore speciale del minore emerge un ulteriore elemento degno di apprezzamento, rappresentato dal fatto che il padre non possa trasferirsi nella città ove la madre vorrebbe spostarsi, poiché la sua attività lavorativa risentirebbe notevolmente della perdita di clientela.
Il trasferimento del figlio con la madre soddisferebbe, dunque, esclusivamente le esigenze di stabilità, anche economica della madre, ma sacrificherebbe completamente quelle del figlio, costretto a lunghe e faticose trasferte tra le due città, distanti più di duecento chilometri, al termine delle lezioni scolastiche, con radicale compromissione del rapporto con un padre con cui, oggi, vive per 16 giorni al mese e ciò con evidente lesione del suo diritto alla bigenitorialità.
Gli impegni legittimamente assunti dalla madre verso il marito non sono più rilevanti di quelli che ella ha nei confronti del figlio, e del diritto del medesimo di avere un'organizzazione di vita regolare e conservare ampi e significativi rapporti con il padre che, non avendo operato differenti scelte di vita, continua a vivere nell'attuale città.
Il Tribunale di Monza considera, altresì, che le legittime esigenze familiari della ricorrente non sono meno meritevoli di tutela nemmeno del diritto alla bigenitorialità del padre che si troverebbe comunque a subire le altrui scelte di vita, limitando radicalmente e incolpevolmente il proprio rapporto con un figlio che ama e di cui si prende cura nella quotidianità. Incide poi senza dubbio nella decisione del Collegio il fatto che, nel caso di specie, il padre non svolga attualmente trasferte lavorative, che sarebbero comunque, nel caso, limitate a tre o quattro giorni al mese. Il medesimo ha affermato tramite il suo avvocato che, qualora tali trasferte dovessero aumentare, egli potrebbe cambiare attività lavorativa per poter mantenere lo status quo in relazione alla frequentazione con il figlio.
Ove, invece, fossero accolte le domande della madre, e il figlio venisse autorizzato a trasferirsi insieme a lei in diversa città, il padre potrebbe vedere suo figlio per tre fine settimana al mese (come detto, per un totale di sei pernottamenti rispetto agli attuali sedici), ma dovrebbe trascorrere uno di questi fine settimana in albergo nell'eventuale nuova città di residenza del figlio, con evidente compromissione della possibilità di vivere con il figlio un'auspicabile realtà domestica.
Il Tribunale di Monza rileva, peraltro, come - in caso di trasferimento - gli oneri economici sulle spalle del padre aumenterebbero notevolmente, andando così a esaurire le sue risorse e rendendo, di fatto, incompatibile alle sue condizioni economiche tale diverso scenario organizzativo, così penalizzando la frequentazione tra padre e figlio.
Il Tribunale di Monza stabilisce che, ove la ricorrente, nell'esercizio di una sua facoltà, decidesse comunque di trasferirsi in altra città per raggiungere il marito, il figlio minorenne verrà collocato anagraficamente presso il padre e la madre potrà vederlo e tenerlo con sé con le modalità previste in sentenza, eventualmente appoggiandosi alla propria famiglia di origine che vive nell'attuale luogo di residenza del minore, e ciò al fine di garantire comunque ampia frequentazione tra la madre e il figlio.
Al collegio giudicante, tale soluzione appare meno gravosa di quella prospettata dalla ricorrente per non determinare oneri economici connessi al pernottamento alberghiero del padre, consentendo altresì alla madre un ulteriore aspetto degno di nota, vale a dire il poter godere della frequentazione con il proprio figlio nell'intimità di in un ambiente domestico.
Fonte:Trib. Monza sez. IV, 23 novembre 2023, n. 2667
In senso conforme
Cass. Civ. sez. VI, 23 settembre 2015, n. 18817
C. Giustizia UE sez. III, 23 dicembre 2009, n. 403.
Obblighi che discendono dal matrimonio espressamente previsti dall'art.143 c.c.
1. L'obbligo di fedeltà.
I coniugi hanno l'obbligo di fedeltà reciproca.
Il dovere di fedeltà consiste infatti nell'impegno, ricadente su ciascun coniuge, di non tradire la fiducia reciproca ovvero di non tradire il rapporto di dedizione fisica e spirituale tra i coniugi in costanza di matrimonio.
Non si tratta solo di astenersi da relazioni sessuali extraconiugali, ma anche di rispettare la dignità e la sfera emotiva dell'altro coniuge all'interno di un rapporto di reciproca ed intima dedizione.
La fedeltà di affetti diventa la componente di una fedeltà più ampia, che si traduce nell'obbligo di non ledere la dignità ed il decoro del coniuge nel suo complesso (Cass. civ., sent. n. 15557/2008).
L'inosservanza dell'obbligo di fedeltà coniugale è considerata, per consolidato e costante orientamento della giurisprudenza di legittimità e di merito, una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l'intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l'addebito della separazione al coniuge responsabile, sempre che non si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, mediante un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto (Cfr. Cass. 15196/23; Cass.n. 11130/2022; Cass.n. 27955/2022; Trib. Benevento sez. I, 3 maggio 2022, n.1035; Trib. Bari sez. I, 4 aprile 2022, n.1200; Trib. Foggia sez. I, 11 gennaio 2022, n.40; Trib. Savona, sent. 7 luglio 2022; App. Bologna, sent. 1° ottobre 2021).
Come già detto la violazione del dovere di fedeltà determina la pronuncia di addebito solamente se viene dimostrata in giudizio anche la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza. È cioè, necessario valutare se ed in quale misura detta violazione si ponga quale causa efficiente dell'intollerabilità della convivenza o piuttosto si configuri come ulteriore sviluppo e sintesi di una già consolidata crisi coniugale (Cass. 6 aprile 2022 n. 11130).
Se la crisi è preesistente e la convivenza dei coniugi meramente formale, la trasgressione al dovere di fedeltà è irrilevante non sussistendo i presupposti per l'addebito (Cass. n. 2059/2012).
Non è necessario, tuttavia, ai fini dell'addebito, che la violazione del dovere di fedeltà si traduca in un rapporto carnale extraconiugale.
Anche se l'adulterio non viene consumato ma si traduca in semplici effusioni affettuose o sms amorosi rappresentativi dell'esistenza di rapporto intimo esso è comunque incompatibile con il dovere di fedeltà e lealtà derivante dal matrimonio ed è pertanto causa di addebito della separazione (Cass.n. 12190/2023; Cass. n° 55100/2017; Cass. civ. sez. un., n. 8053/2014; Cass. civ. sez. I, n. 19555/2013; Cass. civ. sez. VI-1, 22 luglio 2013, n. 17825; Cass. civ. sez. I, 30 gennaio 1992, n. 961; Trib. Caltanissetta sent. n. 1018/2012).
Sono, quindi, sanzionabili con l'addebito tutti quei comportamenti, sessuali e non, che comportino una lesione del reciproco dovere di devozione dei coniugi e quindi della comunione materiale e spirituale.
Anche il tradimento virtuale, per giurisprudenza uniforme, costituisce violazione dell'obbligo di fedeltà in quanto idoneo a compromettere la fiducia tra i due coniugi e a costituire la causa essenziale della rottura matrimoniale (Cass. civ., sent. n. 9384/2018; Cass. sent. n. 14414/2016; Trib. Perugia, sent. n. 1305/2020; Cass. civ., sent. n. 9384/2018).
Ci si riferisce in particolare:
- alle conversazioni a sfondo sessuale intrattenute via chat con altre persone (cd. sexting):
- all'utilizzo da parte di un coniuge di siti di incontri per andare alla ricerca di occasioni extraconiugali o di prestazioni a pagamento;
- all' uso dei più comuni social network (Facebook e Instagram) per intrattenere scambi di messaggistica istantanea di natura erotica ed a chiaro sfondo sessuale ed intento fedifrago sono state considerate condotte idonee a giustificare la pronuncia di addebito
– all' iscrizione a siti di appuntamenti (Cass. ord. 9384/2018).
La violazione del dovere di fedeltà può avvenire inoltre anche quando il contegno del coniuge si presti a verosimili sospetti d'infedeltà e si traduca in condotte lesive della dignità e dell'onore dell'altro coniuge (c.d. infedeltà apparente) certamente deleterie per la comunione materiale e spirituale della coppia (Trib. Firenze n. 1362/2021; Cass.n. 15557/2008; Cass. civ., sent. n. 29249/2008; Cass. civ., sent. n. 3511/1994).
Ad esempio:
- l'atteggiamento del marito che ha concesso effusioni in pubblico ad un'altra donna (Cass. 9472/1999)
- il far credere a terzi di avere un rapporto fedifrago (Cass. 29249/2008);
– alle email e messaggi che facciano ritenere un coinvolgimento quanto meno emotivo o sentimentale rispetto ad un soggetto terzo alla coppia (Cass.14414/2016 e Cass. 5510/2017).
– il dichiarare, sui Social Media di essere single in costanza di matrimonio (Trib. Palmi 6/2021).
Perfino il cosiddetto “amore platonico” può assumere rilevanza in punto di addebito trattandosi di un rapporto affettuoso che, sia pur non consumato, è caratterizzato comunque dal reciproco coinvolgimento sentimentale.
È ciò può ingenerare turbamento nell'altro coniuge e destabilizzare l'unione coniugale in quanto determina una menomazione della dignità dell'altro coniuge (Cass. n. 8929/2013).
Diversamente il semplice rapporto di amicizia con una persona dell'altro sesso, quando non vi sono elementi per configurare una concreta e riconosciuta ipotesi di adulterio, non è classificabile come infedeltà coniugale e dunque causa di addebito se si traduce in un rapporto genuinamente amicale.
2.) Obblighi di assistenza e collaborazione.
L'obbligo di assistenza morale viene qualificato come la cura e l'aiuto reciproco, il cui momento dinamico concreta l'obbligo di collaborazione.
Impone ai coniugi di prendersi cura l'uno dell'altra, manifestando quell'affetto che dovrebbe essere alla base di ogni matrimonio.
Dare «assistenza morale», invece, significa comprendere il partner, proteggerlo, sostenerlo, rispettarlo e non sminuirlo nella sua qualità di genitore o di partner e avere con lui o lei rapporti affettivi.
Nel concetto di assistenza materiale rientra, invece, l'obbligo di partecipare alle spese per la famiglia e a quelle necessarie per soddisfare le esigenze di carattere primario.
Il dovere della collaborazione rimanda alla sfera della consultazione e del dialogo continuo tra coniugi e all'eventualità che gli stessi siano pronti a sacrificare interessi meramente individuali per privilegiare le esigenze obiettive della famiglia.
Comportano, quindi, addebitabilità della separazione anche tutti gli atteggiamenti che implicano un'offesa della personalità del coniuge, imposizioni, mancanza di lealtà, mancato rispetto del riserbo sulle vicende coniugali e personali, intolleranza.
Anche il coniuge che trascura la vita familiare (con uscite serali e comportamenti devianti) può vedersi addebitata la separazione (Cfr. Cass.18 novembre 2013,n. 25843; Trib. Ancona n.39/2014).
Secondo la giurisprudenza, in via esemplificativa, costituiscono motivo di addebito: l'impedimento all'esercizio dei rapporti di un coniuge con la propria famiglia di origine (Trib. Catania 31 dicembre 1992); l'atteggiamento fortemente autoritario e impositivo di un coniuge; il rifiuto di assistere il coniuge infermo di mente; l'ingiustificato rifiuto , reiterato nel tempo, di avere rapporti sessuali (Trib. Terni 22 novembre 1994) qualora sia effetto di una repulsione personale nonché fonte di umiliazione e offesa alla dignità dell'altro coniuge (Cass. 6 novembre 2012 n. 19112); la reiterata divulgazione di notizie false, di carattere diffamatorio, sul conto del coniuge (Trib. Monza 28 maggio 2008).
Persino un atteggiamento unilaterale, sordo alle valutazioni ed alle richieste dell'altro coniuge di concordare l'indirizzo della vita familiare e, eccessivamente rigido, può tradursi nella violazione, del dovere di assistenza morale e materiale (Cass. civ. n. 753/2012).
3.) L'obbligo di coabitazione.
L'articolo 143 c.c., dedicato ai diritti e doveri reciproci dei coniugi, consacra il dovere di coabitazione, inteso come impegno a vivere insieme.
Questo obbligo presuppone che i coniugi scelgano di comune accordo il luogo in cui fissare la residenza familiare tenendo conto delle esigenze personali e della famiglia.
In realtà, però, l'obbligo di coabitazione può essere attenuato dalle esigenze personali dei coniugi, ad esempio per motivi di salute, di lavoro o di studio.
La coabitazione ha infatti da tempo assunto un'accezione più ampia che si apre al generale concetto di unità familiare e di collaborazione a un medesimo progetto di vita.
La coabitazione, in pratica, è divenuta un elemento spesso simbolico e non essenziale. Per motivi contingenti, quindi, è eccezionalmente possibile fissare due separate residenze, se esiste un unico progetto di vita che sia volto alla collaborazione e che esprima l'unità spirituale della famiglia.
In ogni caso, l'obbligo di coabitazione non può essere disatteso totalmente: ad esso deve riconoscersi un contenuto minimo inderogabile. Si può decidere vivere separati, tuttavia tale scelta deve avere carattere contingente e temporaneo e non può comportare, per un tempo indefinito, l'esclusione dalla vita e dalla quotidianità dell'altro.
La giurisprudenza è consolidata nel ritenere che il volontario abbandono del domicilio familiare da parte di uno dei coniugi, costituendo violazione del dovere di convivenza, è di per sé sufficiente a giustificare l'addebito della separazione personale, a meno che non risulti provato che esso è stato determinato dal comportamento dell'altro coniuge o sia intervenuto in un momento in cui la prosecuzione della convivenza era già divenuta intollerabile ed in conseguenza di tale fatto. (Cass., ord. n. 1785/2021, Cass. n. 648/2020; Cass, ord n. 11792/2021; Cass. n. 7469/2017; Cass. civ n. 11929/2017; Trib. Latina sent. 23 luglio 2022 n. 1547; Trib. Novara, sent. 9 gennaio 2023, n. 8).
Non può, quindi, essere pronunciato l'addebito della separazione al coniuge che abbandona il tetto coniugale a causa di una condotta dell'altro che ha reso la convivenza intollerabile (Cass. civ.n. 12241/2020; Cass. civ.30 gennaio 2013, n. 2183).
Anche il previo deposito della domanda giudiziale di separazione, annullamento o divorzio costituisce, exart. 146, comma 1, c.c., giusta causa di allontanamento dalla residenza coniugale.
Diversamente, l'abbandono della casa coniugale prima del deposito delle domande sopra indicate integra violazione dei doveri coniugali ed è di per sé causa sufficiente per l'addebito della separazione, salvo che non sia provato che è stato determinato dalla condotta dell'altro coniuge o che è avvenuto quando la convivenza era già intollerabile. (Cass. civ., n. 11792/2021).
In buona sostanza, «la giusta causa legittimante l'allontanamento di uno dei coniugi dalla casa coniugale, prima della separazione, deve intendersi identificabile non solo nel comportamento illegittimo dell'altro coniuge (….) ma anche nella obiettiva determinatasi situazione di intollerabilità della convivenza coniugale» (Cass.n. 4540/2011).
La Corte di Cassazione ha individuato, inoltre, ipotesi in cui l'allontanamento dalla casa coniugale risulta giustificato: in particolare, laddove manchi una «appagante e serena intesa sessuale» (Cass. n. 8773/2012), ovvero nel caso di frequenti litigi della moglie con la suocera convivente (Cass. n.4540/2011).
4.) L'obbligo di contribuzione.
Tra i doveri che derivano dal matrimonio vi è anche l'obbligo di contribuire ai bisogni della famiglia ed al mantenimento, all'istruzione ed all'educazione dei figli.
Tale dovere costituisce esecuzione dell'obbligo di assistenza materiale che sorge dal matrimonio.
Su entrambi i coniugi grava il dovere di soddisfare, in proporzione alle loro disponibilità economiche oppure con l'attività domestica, reciprocamente i bisogni materiali e spirituali della famiglia, con i mezzi derivanti dalle proprie sostanze e dalle proprie capacità.
Detti bisogni della famiglia non si esauriscono in quelli minimi, ma vanno parametrati ai singoli contesti familiari, specie laddove vi siano ampie disponibilità patrimoniali dei coniugi.
La misura, le modalità e le tempistiche della contribuzione variano, quindi, a seconda delle esigenze di ciascun nucleo familiare, dei redditi dei coniugi, dei loro patrimoni e del tenore di vita che è stato concordato dalla coppia.
A titolo esemplificativo si può ritenere che privare la famiglia del necessario per vivere, non lavorare o rifiutare un'occupazione senza giustificato motivo, non rendersi parte attiva per risolvere i bisogni dei familiari, spendere molto denaro per futilità fino a sperperare il patrimonio familiare, sono tutti comportamenti che possono configurare il mancato rispetto del dovere di contribuzione di ciascun coniuge.
Sull'Addebito nella separazione.
Avv. Gabriele Scuffi.
Il presupposto della pronuncia di addebito della separazione è, ai sensi dell'art. 152, comma 2, c.c., un comportamento, cosciente e volontario, contrario ai doveri che discendono dal matrimonio.
L'onere della prova.
La dichiarazione di addebito della separazione implica, come detto, la prova che la irreversibile crisi coniugale sia ricollegabile esclusivamente al comportamento volontariamente e consapevolmente contrario ai doveri nascenti dal matrimonio di uno o di entrambi i coniugi, ovverosia che sussista un nesso di causalità tra i comportamenti addebitati ed il determinarsi dell'intollerabilità della ulteriore convivenza. Se risulta dimostrato che la crisi coniugale è intervenuta per ragioni ulteriori e diverse, non potrà essere pronunciato l'addebito della separazione. (Cass. civ. 8 novembre 2022, n. 32837)
Il coniuge che richiede l'addebito ha, quindi, l'onere di fornire in giudizio:
a) la prova rigorosa della condotta tenuta dall'altro in violazione di uno o più doveri nascenti dal matrimonio;
b) la prova che la violazione sia stata causa – unica o comunque prevalente e determinante - della intollerabilità della convivenza (Cass. n. 16691/2020; Cass. civ. n. 11162/2019; Cass. n. 7566/1999; Cass. n. 21245/2010; Cass. n. 8862/2012; Cass. n. 8873/2012; Trib. Alessandria, 20 gennaio 2022; Trib. Napoli sent. 22.3.2023 n.1185; Trib. Napoli sent. 8.3.2023 n. 483).
È invece onere di chi eccepisce l'inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda di addebito, provare le circostanze su cui l'eccezione si fonda, vale a dire l'anteriorità della crisi matrimoniale all'accertata violazione (Cfr. Cass. civ. n. 11130/2022).
Ciò vuol dire che, a fronte della violazione di un dovere coniugale, spetta al coniuge che l'ha posta in essere, per evitare l'addebito, dimostrare che la stessa è priva di efficacia causale in quanto assunta, ad esempio, in un contesto familiare già disgregato.
Da ciò deriva, quindi, l'irrilevanza di tutti quei comportamenti contrari ai doveri derivanti dal matrimonio avvenuti in un momento successivo alla crisi coniugale (Cass. civ., 8 novembre 2022, n. 32837; Cass. n.30496/2021; Cass. civ. n. 1715/2019; Cass. n. 11516/2014; Cass. 7 dicembre 2007, n. 25618Cass. n. 5061/2006; Cass. n. 2059/2012; Trib. Milano 16 ottobre 2014, n. 12147 in Redazione Giuffrè; Trib. Vicenza 21 febbraio 2013, n. 281 in Guida al diritto, 2013,24, 63; Trib. Cassino, 8 maggio 2014 in Guida al diritto, 2014, 38, 42).
I mezzi di prova dell'addebito.
L'accertamento della responsabilità di uno o di entrambi i coniugi sul verificarsi della intollerabilità della convivenza non consente di ritenere che sussista un potere-dovere del giudice di disporre d'ufficio mezzi istruttori dovendo trovare applicazione le regole generali ex art. 2697 c.c. in materia di onere della prova.
1.) La confessione.
Versandosi in materia di diritti indisponibili, eventuali dichiarazioni ammissive di una delle parti non possono assumere il valore probatorio legale della confessione ex art. 2730 c.c., (Cass. n. 7998/2014).
Tuttavia, le dichiarazioni delle parti (o degli avvocati) negli atti di causa o nel corso del processo hanno rilevanza ai fini della decisione. Pur non avendo efficacia di prova legale possano comunque essere utilizzate, insieme ad altri elementi probatori, come presunzioni ed indizi liberamente valutabili, sempre che non esprimano opinioni o stati d'animo personali ma fatti obiettivi, suscettibili di essere valutati giuridicamente come indice della violazione di specifici doveri coniugali (V. Cass., 4 aprile 2014, n. 7998; Trib. Genova, 30 maggio 2019, cit.; App. Palermo, 14 marzo 2011, n. 321, in Guida dir., 2011, fasc. 20, p. 64).
2.) La prova testimoniale.
La prova testimoniale può senz'altro trovare ampio utilizzo in questo contesto, pur presentando problematiche specifiche.
Occorre considerare infatti la natura “privata” o “intima” di molte delle circostanze potenzialmente rilevanti sul piano istruttorio, tanto che spesso si assiste al ricorso alla c.d. testimonianza de relato: il teste indotto si limita a riferire circostanze di cui è venuto a sapere dalla stessa parte che lo ha convocato a testimoniare. Tali deposizioni, dunque, sono prive di efficacia probatoria.
La capitolazione delle domande, inoltre, è particolarmente impegnativa, poiché si devono evitare domande generiche, non circostanziate in modo specifico o che implichino l'esternazione di opinioni o valutazione del testimone più che di una narrativa fattuale.
Va poi considerato che i testi indotti dalle parti sono molte volte parenti o amici più o meno stretti di queste ultime e ciò ovviamente ha ripercussioni sulla loro attendibilità.
I mezzi di prova idonei ad accertare le condotte dei coniugi contrarie ai doveri di cui all'art. 143 c.c. – ai fini della dichiarazione dell' addebito della separazione personale - risultano del resto spesso dei meri indizi più che delle prove vere e proprie che, singolarmente, non avrebbero alcun valore, ma considerati unitariamente possono indurre il Giudice a ritenere il fatto come provato.
Per questo l'orientamento maggioritario (Cfr. Cass. n. 6697/2009; Cass. civ. n. 19114/2012) è concorde nel riconoscere quali mezzi probatori ai fini della dichiarazione dell'addebito della separazione a carico di un coniuge le cosiddette testimonianze de relato o indirette, ovvero quelle testimonianze aventi ad oggetto fatti non direttamente sottoposti alla percezione fisica del teste o non conosciuti direttamente in prima persona dallo stesso, così come peraltro accade molto spesso in materia di famiglia, stante il carattere del tutto intimo, personale e riservato dei comportamenti dei coniugi (ad esempio in caso di adulterio) per natura non conoscibili e non percettibili direttamente da parte dei testi.
Tali testimonianze rappresentano un valido elemento di prova se sono suffragate da circostanze oggettive e soggettive ad essa intrinseche o da risultanze probatorie acquisite al processo che concorrano a confortarne la credibilità.
Pertanto, il giudice, pur tenendo in debito conto i rapporti di parentela che possono spingere i terzi ad una scarsa obiettività, deve considerare l'intero complesso delle deposizioni e giudicare della scarsa attendibilità di un teste non apoditticamente, in base al solo rapporto che lo lega alla parte che lo ha indotto, ma secondo la verosimiglianza o meno delle circostanze affermate e la conferma che queste possono trovare o meno nelle deposizioni di altri testi(Cfr. Cass. civ. n. 25663/2014;).
3.) La relazione investigativa.
Si è discusso anche sul valore probatorio delle relazioni redatte da investigatori privati, a seguito di indagini sui comportamenti dell'altro coniuge, spesso connaturate anche da fotografie più o meno eloquenti.
Parte della giurisprudenza in passato aveva confermato la liceità della raccolta prove tramite investigatori privati e la validità in giudizio della relazione investigativa, a cui era stato assegnato valore probatorio anche senza le garanzie del contraddittorio (Cass. civ. 11516/2014).
Più cauta, invece, la dottrina, che ha evidenziato la natura di prova atipica della relazione dell'investigatore, nella quale si individua un contenuto “oggettivo” (ovvero i dati o supporti tecnici in grado di mostrare il contesto spaziale, temporale e personale in cui l'evento è avvenuto) ed uno “narrativo” (fatti attestati come avvenuti dall'investigatore). Il primo contenuto potrebbe essere acquisito al processo come documento, mentre il secondo richiederebbe una conferma attraverso la deposizione testimoniale (Danovi, in Fam. dir., 2014, p. 884 ss.; Guerra, ivi, p. 829).
Dello stesso avviso anche parte della giurisprudenza di merito secondo cui «il rapporto investigativo deve essere oggetto di conferma probatoria mediante escussione testimoniale dei testi di riferimento, in quanto sia stato specificamente contestato dalla controparte (art. 115 c.p.c.), assumendo, altrimenti, un valore pieno di prova documentale» (ex multis: Trib. Milano sent. 1° luglio 2015; Trib. Milano, 13 maggio 2015, est. Servetti; Trib. Milano, 17 luglio 2013, est. Muscio; Trib. Milano, 8 aprile 2013, est. Buffone).
Anche la giurisprudenza di legittimità ha aderito a tale impostazione ritenendo che la relazione investigativa, rientra tra le prove atipiche che possono essere liberamente valutate nel giudizio civile ex art. 116 c.p.c. Il giudice ha il diritto di utilizzarla posto che nell'ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova, perciò il giudice può porre a base del proprio convincimento anche prove cd. atipiche. (Cass. civ. n. 15196/2023; Cass. 16735/2020;).
4.) Mail, Social Network, chat, sms.
Anche le mail, le chat e gli sms quali riproduzioni meccaniche possono rappresentare prove valide se non contestate dalla controparte (Cfr. Cass 27 giugno 2018 n. 16980).
La giurisprudenza ha, infatti, chiarito che le rappresentazioni meccaniche di fatti e di cose ex art. 2712 c.c., formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti e alle cose medesime (Cass.n. 19155/2019 conformi anche Cass. 5141/2019; Cass. 11606/2018).
Il disconoscimento, perché possa essere considerato idoneo a far perdere la qualità di prova, dovrà essere chiaro, circostanziato ed esplicito e concretizzarsi nell'allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta non essendo sufficiente una generica contestazione della prova prodotta in giudizio (Cass. n. 12794/2021).
Disconoscere un messaggio virtuale non impedisce tuttavia che il Giudice possa -in via del tutto discrezionale- stabilire che sia conforme ai fatti ed alle cose attraverso altri mezzi di prova, come ad esempio attraverso delle c.d. presunzioni.
Anche le fotografie e i post pubblicati sul profilo personale di un social network (Facebook, Instagram etc,..) possono essere utilizzati come prova nel processo (Cfr. Trib. Rovigo, sent. n. 504/2020).
Si ritiene infatti che non sussiste alcuna violazione della privacy, perché, considerata la struttura del social network, le informazioni e le fotografie che vengono pubblicate sul profilo non sono assistite dalla segretezza che al contrario, accompagna il servizio di messaggistica o di chat (Cfr. Trib. Santa Maria Capua Vetere ord. 13 giugno 2013).
Non si tratta di corrispondenza privata perché le foto e post del profilo possono essere qualificate come informazioni conoscibili da terzi, in quanto destinate ad essere conosciute da una moltitudine (seppure di solito predefinita e controllata) di soggetti (i c.d. “amici”). Proprio questa conoscibilità da parte di terzi rende queste informazioni utilizzabili in sede giudiziaria.
5.) L'utilizzabilità nel processo delle prove illecitamente acquisite.
Riguardo all'utilizzo in giudizio di messaggi, come email o sms, occorre invece considerare anche il profilo della privacy posto che la posta elettronica e le conversazioni presenti sui programmi di messaggistica rientrano nella nozione di corrispondenza e sono tutelate dal principio costituzionale di segretezza della corrispondenza (art. 15 Cost.).
La lettura da parte di un coniuge della corrispondenza diretta esclusivamente all'altro, senza il suo consenso espresso o tacito, configura il reato di sottrazione di corrispondenza (art. 616 comma 1 c. p.). Lo stesso principio vale per i messaggi di posta elettronica scambiati tramite, e-mail, Messenger, Skype, Facebook. WhatsApp
Questi vengono considerati autentici mezzi di corrispondenza e la violazione della loro riservatezza integra il reato di accesso abusivo a sistema informatico (art. 615-ter c. p.).
Si pone quindi anche il problema di conciliare i diritti di difesa e di tutela della riservatezza.
Al riguardo la giurisprudenza ha chiarito che «in tema di trattamento di dati personali il diritto alla inviolabilità della corrispondenza risulta recessivo rispetto il diritto di difesa in giudizio, in virtù del generale principio di cui all'articolo 51 c.p. (riguardante l'esimente dell'esercizio di un diritto) nonché delle più specifiche norme del codice dei dati personali (art. 24 d.lgs n. 196/2003) e degli artt. 93 e 94 della legge 22 aprile 1941 n. 633 , in tema di diritto d'autore, norme queste ultime secondo cui la corrispondenza, allorché abbia carattere confidenziale o si riferisca alla intimità della vita privata , può essere divulgata senza autorizzazione quando la conoscenza dello scritto sia richiesta ai fini di un giudizio civile o penale». (Cfr. Trib. Roma sent. n. 9887/2017; Cass. civ. n. 21612/2013; Cass. n. 39531/2021).
Tale tematica risulta tuttavia controversa in dottrina e in giurisprudenza a causa del fatto che il nostro ordinamento processuale civile, a differenza di quello penale, non disciplina espressamente l'utilizzabilità della “prova illecita” ovvero non consentita dall'ordinamento.
Ci si interroga spesso se, indipendentemente dall'eventuale procedimento penale, siano producibili e utilizzabili dal Giudice civile, ad esempio, la corrispondenza sottratta illecitamente (come ad esempio le mail o i messaggi scaricati da un coniuge sul cellulare o sul computer dell'altro protetto da password)
Non esiste infatti un orientamento univoco e consolidato.
- Una prima tesi, tradizionale, afferma che benché il favor veritatis debba consentire al Giudice della separazione di utilizzare ampi spazi di indagine, con conseguente limitazione delle regole di esclusione dei mezzi di prova, esso non può legittimare l'utilizzo di mezzi di prova assunti in violazione della legge. (cfr. Cass 8 novembre 2016, n. 22677; vedi anche G. Sapi, L'utilizzabilità delle prove illecitamente acquisite nel processo di separazione, in IUS Famiglie; vedi anche Cass. 8 novembre 2016, n. 22677 che ha escluso l'utilizzabilità nel processo civile del materiale probatorio sottratto in maniera fraudolenta alla controparte che ne era in possesso).
- Un secondo orientamento assume invece che, mancando nel codice di procedura civile una norma analoga a quella di cui all'art. 191 c.p.p. che sancisce l'inutilizzabilità, rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento, delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge, esse sarebbero liberamente valutabili dal giudice ai sensi dell'art. 116 c.p.c., e ciò in quanto l'eventuale illiceità si sarebbe verificata in una fase preprocessuale senza ripercuotersi sugli atti (Trib. Roma, 20 gennaio 2017, v. Tribunale di Roma) Pertanto, in caso di separazione, il Giudice può acquisire ai fini della decisione prove assunte con modalità illecite (che costituiscono reato) se queste rappresentano l'unico modo per esercitare il diritto di difesa, ovvero di sostenere la domanda di addebito della separazione a carico dell'altro. (Cfr. anche Cass. civ.n. 39531/2021).
Tale ultimo orientamento appare condivisibile perché non avvalla la tesi dell'utilizzabilità generalizzata della prova illecita ma presuppone un bilanciamento del diritto alla riservatezza leso, al fine di procurarsi una prova, con quello di difesa e con le garanzie sottese a quest'ultimo.
Quindi la tutela della riservatezza dei dati personali recede di fronte all'esercizio del diritto di difesa di un interesse giuridico se considerato prioritario (Cass. 30 giugno 2009, n. 15327, in Nuova giur. civ., 2010, I, 71). Qualora, invece, l'utilizzo di certi dati, anche sensibilissimi, sia utile per la difesa in giudizio di diritti di rango inferiore rispetto alla tutela della riservatezza, della dignità personale o di altre libertà fondamentali del soggetto titolare dei dati, questi torneranno a prevalere.
Nel diritto di famiglia è importante, del resto, bilanciare gli aspetti della riservatezza e della privacy con quelli relativi alla ricerca della verità. Ciò, però, non esclude il reato in sede penale.
La violazione dei doveri nei confronti della prole.
Ai sensi dell'art. 147 c.c. il matrimonio impone ad ambedue i coniugi anche l'obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall'articolo 315-bis c.c.
La norma ha copertura costituzionale, essendo anche previsto dall'art. 30 Cost. il dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio.
Per quanto concerne il contenuto del diritto in esame, il mantenimento deve essere commisurato ai redditi, alla consistenza del patrimonio ed alla idoneità lavorativa e professionale dei genitori.
Non si esaurisce nelle cure prestate al figlio nel corso della normale convivenza, ma riguarda anche la sfera della vita di relazione e le esigenze di sviluppo della personalità, arrivando a comprendere ogni spesa necessaria per arricchire la personalità del beneficiario.
Il mantenimento deve inoltre coprire tutte le esigenze della prole, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all'aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all'assistenza morale e materiale, alla opportuna predisposizione – fino a quando la loro età lo richieda – di una stabile organizzazione domestica, adeguata a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione( Cass. civ., sez VI, sent. 10 ottobre 2018, n. 25134).
Si è posto il problema di capire se la violazione dei doveri ex art. 147 c.c. possa implicare una pronuncia di addebito nei confronti dell'altro coniuge.
La giurisprudenza – pur scarna sul punto - ha dato risposta affermativa.
È stato ritenuto, infatti, che anche un atteggiamento violento e rigido nei confronti della prole, che prescinda dalle scelte educative dell'altro coniuge, possa fondare la pronuncia di addebito rappresentando una violazione del dovere di collaborazione tra i coniugi (Cass. n. 17710/2005) e del dovere di concordare l'indirizzo familiare (Cass. n. 2289/2006).
Altri Tribunali hanno affermato che la violazione dei doveri gravanti sui genitori ex art. 147 c.c., da parte di uno di essi, legittima la pronuncia di addebito richiesta dall'altro coniuge, qualora sia stata causa immediata e diretta della intollerabilità della convivenza. (Cfr. Trib. Vicenza, 21 febbraio 2013, n. 281, in Guida al diritto, 2013, 24, 63; Trib. Bari 28 giugno 2012, n. 2348, cit.).
È importante chiarire che i comportamenti non consoni nei confronti dei figli possono rilevare – ai fini della pronuncia ex art. 151, comma 2, c.c.- solo in quanto a loro volta si traducono in una violazione di un dovere tra i coniugi.
Alla violazione dei doveri “genitoriali” sono, infatti, già stati preposti strumenti tipici (sostanziali, quali i provvedimenti ex artt. 330 e 333 c.c., nonché processuali, quali l' art. 473-bis.39 c.p.c. previsto dalla riforma Cartabia in sostituzione dell'art. 709-ter c.p.c.).
Altre cause di addebitabilità : la violenza domestica.
Anche la violenza endofamiliare può giustificare l'addebito della separazione.
La locuzione “illecito endofamiliare” si riferisce a tutte le violazioni che si verificano all'interno del nucleo familiare, perpetrate da un membro nei confronti di uno o più altri facenti parte della medesima compagine.
Gli illeciti endofamiliari possono riferirsi sia al rapporto fra i coniugi che a quello fra genitori e figli e sono rappresentati da ogni forma di violenza fisica, psicologica o sessuale.
Per giurisprudenza consolidata le violenze fisiche e morali inflitte da un coniuge nei confronti dell'altro rappresentano violazioni talmente gravi dei doveri coniugali, da giustificare di per sé la dichiarazione di addebito della separazione coniugale, nonché da esonerare il giudice dal compito di comparare i comportamenti di entrambi i coniugi, in quanto le condotte violente ed aggressive, proprio in ragione della loro estrema gravità, escludono qualsiasi possibilità di comparazione.
Esse fondano, quindi, di per se stesse non solo la pronuncia di separazione personale, in quanto cause determinanti lo sconvolgimento dell' equilibrio relazionale della coppia e quindi l'intollerabilità della convivenza, ma anche la dichiarazione di addebito della separazione al loro autore, costituendo violazione di norme imperative ed inderogabili che tutelano diritti fondamentali della persona, quali l'incolumità e l'integrità fisica, oltrepassando quella soglia minima di solidarietà e di rispetto necessaria e doverosa per la personalità del partner (Cass. civ. ord. n. 31351/2022; Cass. 31901/18; Cass. 12541/2016;Trib. Trieste, sent. n. 28/2023; Trib. Torino 11 febbraio 2022, n.608; Trib. Terni, 27 maggio 2022, n.448; Trib.; Trib. Pisa 28 gennaio 2022, n.120; Trib.Teramo, 26 novembre 2021, n.1052; Trib. Firenze n. 1314/2020; Trib. Ravenna, 24 marzo 2022).
La Corte di Cassazione ha chiarito che la violenza fisica di un coniuge nei confronti dell'altro costituisce una violazione talmente grave dei doveri nascenti dal matrimonio da giustificare la dichiarazione di addebito a carico dell'autore della violenza, anche se concretizzatasi in un solo singolo episodio o gesto lesivo (Cass. n. 27324/2022; Cass. n. 27766/2022). Il comportamento violento di violenza non deve quindi essere necessariamente reiterato.
La valutazione complessiva del comportamento tenuto dalle parti : l'addebito reciproco.
Ai fini della dichiarazione di addebito della separazione si deve procedere a una valutazione comparativa dei comportamenti dei coniugi, al fine di accertare la misura nella quale ognuno di loro abbia contribuito a rendere intollerabile la convivenza.
L'obbligo della valutazione comparativa del comportamento dei coniugi consente di stabilire se il comportamento dell'uno possa trovare giustificazione in quello dell'altro, oppure non sia possibile trovare giustificazioni.
Costituisce principio giurisprudenziale pacifico, infatti, quello per cui al fine dell'addebitabilità della separazione personale il Giudice deve procedere non solo al riscontro del comportamento del coniuge consapevolmente contrario ai doveri derivanti dal matrimonio ma altresì alla valutazione comparativa dei comportamenti tenuti dalle parti, in quanto il comportamento dell'uno non può essere valutato senza un raffronto con quello dell'altro (Cass. n. 14162/2001; Cass. n. 23236/2013).
Spesso accade, ad esempio, che la crisi coniugale sia riconducibile alla violazione dell'obbligo di fedeltà imputabile ad entrambi i coniugi i quali, cioè, nel caso della convivenza abbiano intrattenuto relazioni sentimentali separatamente. In tale ipotesi è possibile che la pronuncia di addebito sia pronunciata nei loro confronti a condizione:
- che la violazione sia connotata dell'elemento della contemporaneità (v. Cass. 25 gennaio 2016 n. 1259 ma anche Cass. 16142/2013);
- che non sia, in applicazione dei suddetti principi, la conseguenza di una crisi già in atto (Cass. 20 aprile 2011 n. 9974).
Sotto tale profilo la giurisprudenza ha chiarito che la cd. infedeltà reciproca non può condurre ad una pronuncia di addebito ad entrambi i coniugi quando il tradimento di uno di essi interviene successivamente a quello dell'altro, per effetto di una reazione, o come si suol dire, di una “ ripicca”; nel qual caso l'addebito rimarrebbe a carico di chi ha tradito per primo e sempreché la condotta fedifraga non sia la conseguenza di una crisi già in atto (in questo senso v. Cass. 13 ottobre 2014 n. 21596; Cass. 8 febbraio 2017 n. 3318).
I comportamenti che hanno causato la disgregazione del vincolo matrimoniale e aventi un'efficacia causale nel fallimento matrimoniale possono essere esclusivi non solo di uno dei coniugi ma anche compiuti in concorso con i comportamenti dell'altro.
La separazione può, infatti, anche essere addebitata a tutti e due i coniugi se entrambi hanno tenuto un comportamento che oltrepassa la soglia minima della solidarietà e rispetto della personalità dell'altro, violando i doveri che direttamente scaturiscono dal matrimonio. (Cfr. Trib. Milano sent. 2 marzo 2016; Cass. civ., 20 aprile 2011, n. 9074).
Quindi è da ritenersi ammissibile e configurabile l'addebito della separazione sia al marito che alla moglie.
Le conseguenze della pronuncia di addebito.
Il coniuge cui viene addebitata la separazione subisce conseguenze unicamente sul piano economico.
Nessuna conseguenza discende, invero, riguardo all'affidamento della prole od alla assegnazione della abitazione coniugale, aspetti, questi ultimi, relativamente ai quali la pronuncia di addebito è del tutto irrilevante.
Per l'affidamento e il collocamento dei figli valgono, infatti, le regole generali che prescindono dalla dichiarazione di addebito. Ciò in quanto un coniuge che ha violato un dovere coniugale può comunque avere capacità genitoriale e il Giudice , se tali capacità non sono messe in discussione, deve applicare il principio di bigenitorialità avendo il figlio diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori (art. 337-ter c.c.).
L'addebito non ha neppure alcuna influenza sulla decisione del Giudice in ordine all'assegnazione della casa coniugale, giacché tale misura è prevista solo nell'interesse della prole (art. 337-sexies c.c.).
La giurisprudenza ha infatti chiarito al riguardo che «la condotta contraria ai doveri matrimoniali da parte di uno dei coniugi, a cui è addebitata la separazione, non contrasta con il collocamento del figlio presso lo stesso, dal momento che la violazione ai doveri nascenti dal matrimonio non si traduce necessariamente anche in un pregiudizio per l'interesse del figlio, non nuocendo al suo sviluppo né compromettendo il rapporto con il genitore medesimo» (Cass. 17089/2013).
La perdita del diritto al contributo per il mantenimento.
Il coniuge cui la separazione è stata addebitata perde il diritto il diritto ad ottenere dall'altro coniuge, anche qualora sussistano le condizioni che lo giustificherebbero, un assegno che gli consenta di mantenere lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio (art.156 comma1 c.c.).
Il coniuge cui sia addebitata la separazione conserverà , invece, il diritto agli alimenti, qualora versi in uno stato di bisogno (art.156 comma 3c.c.) qualora sussistano i presupposti ex art. 438 c.c., vale a dire ch'egli versi in stato di bisogno perché incapace di far fronte al proprio sostentamento ovvero di soddisfare i c.d. bisogni primari (vitto, abitazione, cure mediche).
Con il termine alimenti ci si riferisce a tutto ciò che è necessario per soddisfare le esigenze minime di vita come il vitto, l'abitazione, le cure e il vestiario, in relazione allo stile di vita di chi ne ha diritto.
Al fine di stabilire l'incapacità di procurarsi autonomamente i mezzi per la propria sussistenza, si dovrà tenere conto della situazione soggettiva dell'interessato come l'età, la salute e la capacità lavorativa.
È bene bene quindi ribadire che l'assegno di mantenimento e gli alimenti assolvono due finalità diverse.
L'assegno di separazione ha la funzione di garantire al coniuge debole, che non fruisce di redditi adeguati, il mantenimento di un tenore di vita sostanzialmente analogo a quello goduto nel corso della convivenza pregressa con l'altro coniuge (Cass. n. 20228/2022; Cass. 21505/2021; Cass. 9294/2018).
Gli alimenti assolvono invece alla funzione di garantire assistenza al coniuge che non riesce a soddisfare le minime esigenze di sostentamento. La prestazione patrimoniale legata all'obbligazione alimentare è dovuta solo quando l'alimentando dimostri non solo di versare in uno stato di bisogno, ma anche di essere impossibilitato allo svolgimento dell'attività lavorativa necessaria per provvedere al proprio sostentamento per invalidità al lavoro a causa di incapacità fisica o per impossibilità originata da cause a lui non imputabili (Cass.n.33789/2022).
La perdita dei diritti successori.
Con la separazione, a differenza del divorzio, si ha solamente un affievolimento del vincolo coniugale e lo status di coniuge permane.
Il coniuge separato, in linea generale, mantiene quindi i diritti successori nei confronti dell'altro sia in caso di separazione giudiziale che consensuale.
Al contrario il coniuge separato a cui è stata addebitata la separazione è escluso dalla successione ereditaria mantiene solamente il diritto ad un assegno vitalizio se al momento dell'apertura della successione godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto. Ciò vale anche nel caso in cui la separazione sia stata addebitata ad entrambi i coniugi.
Detto assegno vitalizio non può essere superiore alla prestazione alimentare (art. 548 comma2 c.c.).
Il diritto alla pensione di reversibilità è riconosciuta al coniuge separato a prescindere dal fatto che la separazione sia avvenuta con o senza addebito e quand'anche il coniuge defunto non fosse tenuto a versare l'assegno alimentare.
La giurisprudenza ha chiarito che non può ritenersi vigente nel nostro ordinamento alcuna differenza di trattamento per il coniuge superstite separato in ragione del titolo della separazione.
La ratio della tutela previdenziale prevista dalla l. n. 903/1965 è rappresentata dall'intento di porre il coniuge superstite al riparo dall'eventualità dello stato di bisogno, senza che tale stato di bisogno divenga (anche per il coniuge separato per colpa o con addebito) concreto presupposto e condizione della tutela medesima (Cass. n. 2606/2018; Cass. n. 7464/2019; Cass. n. 9649/2015; Cfr. anche Circolare Inps n. 19/2022).
Addebito e risarcimento del danno endofamiliare ex art. 2043 c.c.
In caso di separazione dei coniugi, la normativa di famiglia consente come unica misura risarcitoria, in favore del coniuge “incolpevole”, la separazione con l'addebito della stessa all'altro coniuge. Questione discussa è se l'accertata addebitabilità della separazione ad uno dei coniugi possa fondare o meno la domanda di risarcimento dei danni patiti dall'altro.
A tale questione la giurisprudenza ha dato risposta positiva posto che i doveri derivanti ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica e la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, ben può integrare gli estremi dell'illecito civile e dare luogo ad un'autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell'art. 2059 c.c. (cfr. Cass. 23 febbraio 2018, n. 4470; Cass.sent, 15 settembre 2011, n. 18853) senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia a questa preclusiva (Cass. civ. sez. III, 7 marzo 2019, n. 6598).
Non sussiste, quindi, alcun rapporto di pregiudizialità tra la domanda di addebito e quella di risarcimento dei danni.
Trattasi del c.d. danno endofamiliare, rientrante nel danno non patrimoniale (ex art. 2059, c.c.), configurabile quando la lesione abbia alterato l'assetto dato dalle relazioni familiari ed abbia inciso sulla persona, ovvero quando la lesione di un diritto fondamentale della personalità (es. relazione genitore-figlio) avviene da parte di altro componente della famiglia, non potendo ritenersi che i diritti inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i titolari si pongano o meno all'interno di un contesto familiare (Cfr., sul punto, Trib. Reggio Emilia, sez. II, 24 giugno 2020, n. 558; Trib. Livorno, 15 aprile 2020, n. 331; Trib. Bolzano, sez. II, 13 marzo 2020, n. 286; Trib. Reggio Calabria, sez. I, 14 dicembre 2020, n. 1212; Cass. civ. sez. I, 15 settembre 2011, n. 18853).
Occorre però considerare che l'addebito della separazione non è di per sé automaticamente fonte di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.
Per il risarcimento del danno endofamiliare, in altri termini, è necessario che la condotta illecita:
a) produca un danno ingiusto, inquadrabile nel danno non patrimoniale di natura esistenziale, da valutarsi in base agli atti acquisiti al processo e parametrato, tenuto conto della gravità e della durata delle violazioni e delle ricadute negative sulla vita e sulla salute di coniuge e figli (Cfr. Trib. Savona, 13 gennaio 2020, n. 50)
b) violi un diritto fondamentale di rango costituzionale, quale la dignità della persona, e sia di particolare gravità, essendo posta in essere con modalità insultante, ingiuriosa ed offensiva (Cfr. Tribunale Reggio Emilia, 24 giugno 2020, n. 558.), o con reiterati comportamenti violenti e gravemente intimidatori, essendo fatti delittuosi sussumibili all'interno delle fattispecie di cui agli artt. 612, 594 e 581, c. p. (Cfr. Trib. Ragusa, 15 novembre 2017, n. 1278)
Spetterà al giudice il compito di valutare, caso per caso, se sussistano gli estremi del comportamento doloso o colposo, del danno ingiusto e della sussistenza del nesso causale.
Significativa sul punto una recente pronuncia della Corte di Cassazione in materia di violazione dell'obbligo di fedeltà secondo cui detta violazione può dar luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ex art 2059 c.c., senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia a ciò preclusiva, "sempre che (tuttavia) la condizione di afflizione indotta nel coniuge superi la soglia della tollerabilità e si traduca, per le sue modalità o per la gravità dello sconvolgimento che provoca, nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, quale, in ipotesi, quello alla salute o all'onore o alla dignità personale" (Cfr. Cass. n. 6598/2019; Cass.n. 18853/2011).
La domanda di risarcimento dovrà tuttavia essere formulata in altra sede, in quanto «le domande di risarcimento dei danni e di separazione personale con addebito sono soggette a riti diversi e non sono cumulabili nel medesimo giudizio, atteso che, trattandosi di cause tra le stesse parti e connesse solo parzialmente, sono riconducibili alla previsione di cui all'art. 33 c.p.c., laddove il successivo art. 40 c.p.c., nel testo novellato dalla legge 26novembre 1990,n. 353, consente il cumulo nell'unico processo di domande soggette a riti diversi esclusivamente in presenza di ipotesi qualificate di connessione “per subordinazione” o “forte”» (Cass. civ. sent. 8 settembre 2014 n° 18870; Trib. Cuneo, 17 luglio 2020; Trib. Milano, sez. IX civ., sent., 6 marzo 2013; Trib. Milano, sez. IX, sent., 3 luglio 2013; Cass. civ., sez. I, 21 maggio 2009, n. 11828, Cass. civ., sez. I, 22 ottobre 2004 n. 20638).
Sui Servizi Sociali.
Il servizio sociale svolge le proprie funzioni sia in ambito strettamente giudiziario che amministrativo (intervenendo gli operatori preposti all'interno del processo, civile e penale, ma anche a tutela delle situazioni di difficoltà e disagio sociale) sia in riferimento a problematiche economico – educative, di solitudine – età avanzata - disabilità.
Per tale motivo è possibile operare la distinzione tra i Servizi Sociali dell'Amministrazione della Giustizia, che operano in ambito giudiziario, e Servizi Sociali degli Enti Locali, che - pur entrando spesso in contatto con l'Amministrazione della Giustizia in ambito civile e soprattutto minorile - svolgono una funzione del tutto distinta e indipendente.
Inquadramento.
La definizione “servizi sociali” - come spiega l'Avv. Stefano Cera - ricomprende una varietà di funzioni amministrative e giudiziarie che lo Stato, le Regioni ed i Comuni demandano a questo settore della pubblica amministrazione, il quale nel corso del tempo ha assunto funzioni che, prima della sua costituzione, erano esercitate da enti caritatevoli, associazioni di beneficienza e religiose.
Per “servizi” devono dunque intendersi tutte quelle attività rivolte alla erogazione di prestazioni “sociali”, siano esse di carattere economico, assistenziale, di supporto alle famiglie ed alle persone deboli, che siano dirette al sostegno di persone in stato di bisogno, siano esse minori o maggiorenni.
Le funzioni socio assistenziali si svolgono all'interno di un sistema in cui Stato, Regioni ed Enti Locali svolgono compiti differenti.
Allo Stato spetta, ai sensi dell'art. 117 lett. m) Cost. (come modificato con la legge Costituzionale n. 1/2001), la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
La Corte Costituzionale ha chiarito (sent. n. 282/2002) che si tratta non di una competenza per materia, che è devoluta alle Regioni, ma di sistema, con l'obiettivo di assicurare un'uniformità di trattamento, sul territorio dello Stato, nella proposta di servizi e interventi finalizzati al godimento dei diritti civili e sociali delle persone, quanto al loro contenuto essenziale.
Alle Regioni spetta in via esclusiva la competenza sulla programmazione, coordinamento ed indirizzo nonché nella ripartizione dei finanziamenti assegnati dallo Stato. Ogni Regione si è dotata di una legge quadro sulle politiche socio assistenziali.
Ai Comuni spetta la titolarità della funzione amministrativa concernente gli interventi e servizi svolti a livello locale.
Per "servizi sociali" si intendono, secondo una prima definizione normativa, tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia (art. 128 d.lgs. n. 112/1998 «conferimento di compiti e funzioni amministrative dallo Stato alle regioni ed agli Enti Locali in attuazione della l.d. n. 59/1997»).
Con la legge quadro 328/2000 si è affermato per la prima volta il diritto di ogni persona all'assistenza, intesa come un sistema integrato di interventi e servizi sociali, che «promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza con gli artt. 2, 3 e 38 Cost.»(art 1 l. n. 328/2000).
Si può agevolmente notare la differenza tra le due definizioni e la differente impostazione ricavabile dal richiamo al bisogno, operata nella definizione proposta dall'art. 128 del d.lgs. n. 112/1998 rispetto all'evoluzione che ha portato, con la legge quadro sui servizi socioassistenziali, a centrare il fuoco degli interventi e delle politiche non più sul piano della residualità e dell'intervento riparativo, ma su base universalistica e con finalità di attuazione dell'art. 3 comma 2 Cost., quindi sul piano dei diritti.
Con la legge n. 328/2000 si è definitivamente abbandonato il concetto di assistenza e beneficenza e si è data dignità di diritto di rango costituzionale alle prestazioni di servizio sociale.
A fronte del suddetto quadro normativo, la prassi giurisprudenziale ha, via via, ampliato il campo di intervento del servizio sociale nei procedimenti civili e penali, principalmente per la soluzione di problemi connessi alla conflittualità tra genitori o nella gestione del rapporto tra questi ultimi ed i figli.
Un ulteriore ambito di intervento del servizio sociale e è stato introdotto con la legge 154 del 4 aprile 2001, emanata nell'ambito del contrasto alla violenza nelle relazioni familiari. In particolare l'art. 342 ter c.c. prevede l'intervento del servizio sociale del territorio, a tutela del genitore o del minore vittima di maltrattamenti, in seguito all'emissione di un ordine di protezione. Tali poteri sono stati recentemente rimodulati e codificati con l'introduzione degli artt. 473 bis e ss. c.p.c. (L. 206/2021).
Particolare rilievo, infine assumono i poteri conferiti al servizio sociale dalla Legge 6 del 9 gennaio 2004, introduttiva della misura di protezione dell'amministrazione di sostegno, con la quale al servizio è conferita la legittimazione attiva a proporre, avanti al giudice tutelare, ricorso ai sensi dell'art. 407 c.c., ovvero a favorire l'intervento del Pubblico Ministero ad agire in tal senso.
La funzione amministrativa del servizio sociale: I livelli essenziali delle prestazioni di servizio sociale.
La definizione dei cosiddetti LIVEAS (livelli essenziali dell'assistenza sociale) o LEPS (livelli essenziali delle prestazioni sociali) deve essere intesa come la definizione del contenuto essenziale dei prestazioni e servizi, e perciò indefettibile, senza il quale non è possibile che si realizzi il soddisfacimento dei diritti costituzionalmente garantiti dagli artt. 2, 3 e 38 Cost..
La Corte Costituzionale ha affermato che la competenza dello Stato ex art. 117, lett. m) Cost.: «si riferisce alla determinazione degli standard strutturali e qualitativi di prestazioni che, concernendo il soddisfacimento di diritti civili e sociali, devono essere garantiti, con carattere di generalità, a tutti gli aventi diritto».
Un esempio di definizione di un livello essenziale di prestazione sociale, nell'ambito del diritto all'educazione ed allo sviluppo del minore, potrebbe essere il seguente: il legislatore statale potrebbe prevedere che i minori figli di genitori entrambi occupati, o appartenenti a nuclei monogenitoriali, abbiano diritto ad accedere ad una serie di servizi; asili nido, baby sitter qualificati o educatori che li sostengano nei compiti scolastici; potrebbe prevedere gli standard di qualità di queste prestazioni e i criteri di partecipazione ai costi da parte degli utenti.
È chiaro che la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni di servizio sociale determinerebbe un catalogo di diritti esigibili, cioè costituirebbe il titolo in forza del quale la persona potrebbe esercitare la pretesa, nei confronti della Pubblica Amministrazione, di ricevere determinate prestazioni e servizi, ottenendo in caso di inadempimento o ritardato o inesatto adempimento, la condanna al facere da parte dell'autorità giudiziaria ed anche il risarcimento del danno.
La legge finanziaria del 2003 all'art. 46 previde che lo Stato avrebbe adempiuto all'obbligo di definire i LIVEAS di concerto con le Regioni e gli enti locali.
Da allora non è stato compiuto alcun passo avanti concreto; l'ultimo intervento governativo, che fa seguito ad un decennio di dibattito parlamentare, proposte di legge ed emendamenti, è del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che, con il “Piano Nazionale degli Interventi e dei servizi Sociali 2012/2023, ha dettato linee guida per l'applicazione del LIVEAS a livello nazionale.
Altra questione in tema di livelli essenziali delle prestazioni è quella della compartecipazione ai costi delle prestazioni stesse.
L'art. 3, comma 2-ter,d.lgs. 31 marzo 1998, n. 109 stabilisce che in relazione a questo aspetto, nelle prestazioni a domicilio e residenziali per portatori di handicap grave ed anziani non autosufficienti, si debba tenere conto del solo reddito dell'assistito.
Sulla base di tale norma la giurisprudenza ha affermato che il criterio della valutazione della posizione economica del solo assistito: «costituisce uno dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire in modo uniforme nell'intero territorio nazionale» a cui «sia il legislatore regionale sia i regolamenti comunali devono attenersi» (Cons. Stato, sent., 15 febbraio 2011, n. 1607; Cons. Stato, sent., 16 settembre 2011, n. 5185; Cons. Stato, sent., 10 luglio 2012, nn. 4071, 4077, 4085).
La Corte Costituzionale, con la sentenza 296/2012, invece, ha affermato il contrario, dichiarando non fondata la questione di incostituzionalità di una norma di legge regionale Toscana che regola la compartecipazione alle spese tenendo conto anche del reddito dei coniugi e dei parenti in linea retta dell'assistito.
La Corte ha stabilito che «deve escludersi che la norma di cui all'art. 3, comma 2-ter, d.lgs. n. 109/1998, costituisca un livello essenziale delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, idoneo a vincolare le Regioni ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. m), Cost. nella materia di competenza legislativa residuale relativa ai servizi sociali».
In tema di esigibilità delle prestazioni e compartecipazione ai costi sono recentemente intervenuti atti di riforma (d.P.C.M. n. 159/2013 e d.m. 7 novembre 2014) che hanno portato all'introduzione dal primo gennaio 2015 alla definizione di nuovi criteri per la determinazione dell'ISEE attraverso al DSU, dichiarazione sostitutiva unica.
Al riguardo si segnala l'interessante pronuncia Cassazione civile sez. I, 22 febbraio 2022, n.5869, con la quale viene stabilito che in tema di interventi sociali, assistenziali e sociosanitari volti a garantire un aiuto concreto alle persone ed alle famiglie in difficoltà, spetta al comune territorialmente competente, nell'esercizio dei compiti e delle funzioni normativamente attribuitegli in materia dall'art. 6, commi 2 e 3, della l. n. 328 del 2000, la definizione dei parametri per la valutazione delle condizioni di povertà, di limitato reddito e di incapacità totale o parziale per inabilità fisica e psichica, e delle relative condizioni per usufruire delle prestazioni. L'ente, inoltre, può assumere obblighi diversi, anche di impegno economico meramente temporaneo, rispetto a quello per cui lo stesso è già tenuto, ove previamente informato, laddove si renda necessario il ricovero stabile presso strutture residenziali del soggetto avente diritto alla corrispondente prestazione. In tal caso, però, atteso il limite della disponibilità delle risorse comunali in base ai piani nazionali, regionali e di zona degli interventi e dei servizi sociali, quell'impegno più circoscritto delimita in concreto l'entità dell'obbligazione assunta dal comune medesimo nei riguardi di chi esegue la prestazione assistenziale dopo averne accettato la corrispondente richiesta del primo.
I compiti del servizio sociale nel sistema giustizia.
L'intervento del servizio sociale all'interno dell'ordinamento giudiziario avviene sia nel settore penale che in quello civile. In campo penale gli operatori sono inseriti all'interno dell'organico del Ministero della Giustizia ed inseriti nell'ufficio per adulti sottoposti ad esecuzione penale, Ufficio Esecuzione Penale Esterna (UEPE) ed Ufficio di servizio sociale per i Minorenni, il quale interviene di concerto con il Tribunale per i Minorenni territorialmente competente fin dall'inizio del processo.
La funzione del servizio in ambito penale è stata incrementata in seguito all'introduzione della sospensione del processo penale per messa alla prova e per l'applicazione di tutte le misure alternative alla detenzione.
In tale ambito il servizio sociale coordina le attività relative e gestisce le strutture presso le quali adulti e minori scontano la misura alternativa alla detenzione.
Misura principale è rappresentata dall'affidamento in prova ai servizi sociali, previsto e disciplinato dall'articolo 47, D.p.r. n. 354/1976, il quale stabilisce che, se la pena detentiva inflitta non supera i tre anni, il condannato ha la possibilità di essere affidato ai servizi sociali fuori dell'istituto per un periodo uguale a quello della pena da scontare. Il provvedimento viene adottato sulla base dei risultati della osservazione della personalità, condotta collegialmente per almeno un mese in istituto, nei casi nei quali si può ritenere che lo stesso, anche attraverso le prescrizioni delle quali al comma 5, contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati.
In generale la funzione del servizio sociale in ambito giustizia può schematizzarsi in cinque macro aree:
Funzione PROPONENTE: il servizio sociale segnala all'Autorità giudiziaria una situazione pregiudizievole per un minore, un soggetto debole, un nucleo familiare (si pensi alla previsione di cui alla Legge 6/2004 istitutiva dell'amministratore di sostegno o di quanto previsto al nuovo art 403 c.c. di cui infra).
Funzione ISTRUTTORIA: l'Autorità Giudiziaria incarica il servizio sociale di svolgere un'indagine sociale su un nucleo familiare o su un singolo soggetto, ciò al fine di trarne argomenti probatori e valutativi da utilizzare in un procedimento giudiziario. Tale previsione trova fondamento in quanto previsto dall'art. 213 c.p.c.
Funzione ATTUATIVA: il servizio sociale è incaricato dall'Autorità giudiziaria di dare applicazione ad una decisione presa dal giudice; in tale ambito rientrano, ad esempio, la predisposizione dei calendari di incontri tra minori e genitori, l'organizzazione della frequentazione dei figli in ambiente tutelato alla presenza degli operatori) ma anche l'attuazione di misure a tutela delle persone sottoposte a misure interdittive o di tutela.
Funzione di VIGILANZA: il servizio sociale è incaricato dall'Autorità Giudiziaria di monitorare l'attuazione di un provvedimento emesso dal giudice. Si considerino tutti i casi nei quali è necessario verificare la puntuale attuazione di precetti inerenti scelte educative o sanitarie di minori o disabili, monitorare l'attuazione della corretta e regolare frequentazione tra figli e genitori in precedenza interrotta, vigilare sulle relazioni tra i componenti del nucleo familiare e gli altri parenti, ascendenti, nuovi compagni/e.
PRESA IN CARICO: il servizio sociale segue il minore o il nucleo familiare con poteri di intervento e decisionali, anche supplettivi. La recente riforma introdotta con la Legge 26 novembre 2021 n. 206, entrata in vigore il 28 febbraio 2023, ha disciplinato in modo articolato l'ambito di intervento del servizio sociale, prevedendo nuovi poteri del giudice in sede di attuazione delle misure; detti poteri saranno dallo stesso esercitati prevalentemente tramite gli operatori del servizio, che da sempre rappresentano il “bracco operativo” della magistratura minorile e di quella che si occupa di diritto fi famiglia.
L'affidamento al servizio sociale.
Una delle principali (e più frequenti) funzioni che il servizio sociale è chiamato a svolgere all'interno del processo familiare riguarda i compiti che il giudice può al medesimo attribuire nel caso in cui venga disposto l'affidamento del minore al servizio sociale territorialmente competente.In primo luogo, deve essere distinto il concetto di affidamento da quello di responsabilità genitoriale. Normalmente all'interno della famiglia le funzioni coincidono: il diritto – dovere dei genitori di istruire ed educare i propri figli coincide con la facoltà di incidere sulle decisioni inerenti la loro vita quotidiana, esercitando essi le facoltà ed i doveri che derivano dal loro ruolo. In caso di parziale inidoneità genitoriale, invece, la legge prevede la facoltà per il giudice di affidare i minori al servizio sociale, pur potendo mantenerne la collocazione presso i genitori medesimi e senza privarli della responsabilità genitoriale.La norma di riferimento di tale intervento è certamente l'art. 333 c.c.; Il giudice, in questo caso, dovrà stabilire quali siano le prerogative ed i compiti di intervento degli operatori del servizio sociale, limitando le facoltà decisionali dei genitori solo in campi predefiniti (solitamente quelli legati al conflitto genitoriale) e lasciando dunque loro residua capacità di azione, anche in concerto con gli operatori stessi. Interessante al riguardo la pronuncia di Trib. Ravenna 8 ottobre 2021, secondo la quale “L'affidamento del figlio minore ai servizi sociali disposto dall'autorità giurisdizionale rientra nei provvedimenti opportuni e convenienti nell'interesse del minore stesso, finalizzati a superare la condotta pregiudizievole di uno o di entrambi i genitori, senza però dar luogo alla pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale; tale decisione è da preferire tutte le volte in cui vi siano pesanti dubbi in ordine alla convenienza di un affidamento congiunto del figlio minore, qualora, sulla base degli elementi raccolti in giudizio, emerga una situazione genitoriale particolarmente complessa” Secondo Cass civ I sez. 31902/2018, “La decisione con la quale l'autorità giudiziaria dispone l'affidamento del minore ai servizi sociali rientra nei provvedimenti convenienti per l'interesse del minore, di cui all'art. 333 c.c., in quanto diretta a superare la condotta pregiudizievole di uno o di entrambi i genitori senza dar luogo alla pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale ex art. 330 c.c., ha natura di atto di giurisdizione non contenziosa e, anche quando non sia previsto un termine finale dell'affidamento, esso è privo del carattere della definitività, risultando sempre revocabile e reclamabile, secondo il disposto di cui all'art. 333, comma 2, c.c.” (pronuncia confermata anche da Cass civ. 28676/2022).La misura, pertanto, potrà sempre essere revocata, ampliata o rimodellata, a seconda delle necessità che si presenteranno nel corso del procedimento.
La funzione del servizio sociale nel nuovo articolo 403 c.c.
La riforma introdotta dalla legge 206/2021 ha posto un forte limite all'attività del servizio sociale in riferimento alla disposizione di cui al novellato art. 403 c.c., spesso fonte di contraddizioni e di applicazioni arbitrarie da parte dell'Autorità procedente.
La vecchia formulazione della norma, risalente al 1942, prevedeva che “quando il minore è moralmente o materialmente abbandonato o è allevato in luoghi insalubri o pericolosi oppure da persone che per negligenza, immoralità, ignoranza o per altri motivi incapaci di provvedere all'educazione di lui, la pubblica autorità, a mezzo degli organi di protezione dell'infanzia, lo colloca in un luogo sicuro sino a quando si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione”.
Dalla stessa lettura della norma, ricordiamo in vigore fino a qualche mese fa, è possibile evincere come la fattispecie fosse improntata a garantire alla Autorità giudiziaria un intervento rapido ed invasivo all'interno del nucleo familiare presso il quale il minore era collocato, senza poi prevedere adeguate garanzie processuali per i genitori da cui il minore era allontanato a tutela dei propri diritti.
D'altronde, nel contesto normativo nel quale la norma ha visto la luce, i diritti relazionali delle persone non erano tutelati come diritti fondamentali, in quanto lo Stato rappresentava una Autorità superiore che aveva un ambito di azione arbitrario e prevalente.
Nonostante le numerose riforme che, dopo oltre 70 anni dall'entrata in vigore del codice civile, hanno visto un profondo mutamento del diritto di famiglia, l'impianto dell'art. 403 c.c. ha resistito come era stato originariamente pensato fino a pochi mesi fa, dando adito ad applicazioni contraddittorie ed autoritarie, poco compatibili con una moderna e costituzionale tutela dei diritti del minore.
Fino alla novella del 2022, infatti, il procedimento, che poteva avere impulso proprio dal servizio sociale, prevedeva sì un successivo vaglio del Tribunale per i Minorenni, ma esso non era normato circa i tempi di risposta dell'autorità giudicante, particolarmente rilevanti in questo delicato campo, né tantomeno era disciplinato il diritto delle parti a partecipare al procedimento.
Era dunque compito del giudice procedente cercare di interpretare le modalità applicative della norma, limitando l'intervento coattivo del servizio sociale ai casi di violazione dei cd. diritti fondamentali di solidarietà familiare che tutelano l'interesse della persona, in tal caso minore di età, a ricevere quel sostegno e guida necessari per la sua crescita.
Alcuni tribunali avevano anche cercato di formulare una definizione del generico concetto di abbandono morale e materiale prospettato dal vecchio 403 c.c., da individuarsi nella mancanza di quella carica affettiva indispensabile ad una sana ed equilibrata crescita fisica e psicologica del minore (v. Trib. min.Caltanissetta, 26 agosto 2022).
L'applicazione, a volte abnorme, di detta normativa ha comportato anche condanne risarcitorie dei Comuni di appartenenza del servizio sociale procedente, rei di aver attivato senza una reale necessità un procedimento di allontanamento del minore dalla propria famiglia (v. Cass. civ. sez. III, 16 ottobre 2015, n. 20928, v. anche Trib min Bologna 13 gennaio 2011; con tale decisione il giudice non confermava l'allontanamento di un minore dall'abitazione familiare riscontrando carenza di motivazione nella decisione assunta dal servizio sociale).
La novella del 2022 ha il merito di aver posto fine allo strapotere che il servizio sociale aveva in questo ambito, in primo luogo limitando l'intervento ai soli casi nei quali vi sia urgenza di provvedere che pericolo per l'incolumità psico fisica del minore.
L'autorità procedente, poi, entro 24 ore dall'adozione del provvedimento, ha l'obbligo di trasmettere gli atti al Pubblico ministero il quale, entro le successive 72 ore, se non dispone la revoca della misura ne chiede la convalida al Tribunale per i Minorenni, il quale provvede nelle successive 48 ore.
Il mancato rispetto dei termini previsti determina la perdita di efficacia della misura.
La nuova formulazione dell'art. 403 c.c. dunque, se da un lato mantiene in capo al servizio sociale, seppur in via residuale, la possibilità di intervenire in caso imminente necessità di tutela del minore, dall'altro lato consente una efficacia verifica di quanto dal medesimo attuato da parte del Tribunale dei Minorenni, contingentandone i tempi di azione a pena di decadenza della misura.
Tra le prime pronunce relative all'applicazione del nuovo art. 403 si segnala Trib. min. Bologna 17 aprile 2023 secondo il quale “Tra i presupposti introdotti dalla legge 206/2021 per la misura dell'allontanamento dei minori da parte della Pubblica Autorità vi è, oltre all'abbandono ed al pericolo, l'emergenza di provvedere, circostanza negativa improvvisa che può comportare conseguenze gravi se non gestita immediatamente”
Si segnala anche che la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, per regolamentare l'applicazione della nuova normativa e disciplinare il nuovo ruolo del servizio sociale ha emanato, in data 23 maggio 2022, la direttiva 2/22 contenente le linee giuda applicative per operatori socio sanitari e forze di polizia, reperibili in https://www.procmin.milano.giustizia.it.
L'intervento del servizio sociale nel processo civile dopo la riforma del processo familiare (Legge 26 novembre 2021 n. 206).
La recente riforma del processo familiare, entrata in vigore dal 28 febbraio 2023, ha come noto introdotto il rito familiare unico, sottoponendo alle medesime regole processuali tutti i procedimenti relativi allo stato delle persone, ai minorenni, ed alle famiglie in precedenza sottoposti alla competenza del Tribunale per i minorenni ovvero disciplinati dal rito di volontaria giurisdizione.
Tale riforma ha comportato un ampliamento dei poteri istruttori e d esecutivi del giudice, rafforzando anche il ruolo che il servizio sociale potrebbe avere all'interno del processo.
Si consideri ad esempio quanto previsto agli artt. 473-bis.6 c.p.c.; la norma, che introduce una corsia preferenziale processuale in caso di rifiuto del minore ad incontrare il genitore, indica come il giudice, nello svolgimento della propria attività atta ad accertare le cause del rifiuto, debba assumere informazioni al riguardo.
È dunque automatico dedurre che la fonte primaria di tali informazioni non potrà che essere il servizio sociale, il quale sarà incaricato di vagliare le problematiche sottese alle relazioni del nucleo familiare per cercare di individuare le ragioni di detto rifiuto.
Un altro sicuro ambito di intervento del servizio è previsto dalla riforma nell'ambito del ricorso del Pubblico Ministero ex art 473-bis.13 c.p.c.; la norma indica come il PM debba allegare al ricorso tutti i documenti relativi agli accertamenti svolti ed alle informazioni assunte, informazioni la cui fonte primaria non potrà che essere rappresentata, ancora una volta, dalle relazioni del servizio sociale. Il servizio prenderà dunque contatto con il nucleo familiare per il quale viene richiesto l'intervento giudiziario, fornendo al PM un quadro aggiornato della situazione familiare e delle criticità riscontrate.
Un importante ruolo del servizio sociale è potenzialmente riscontrabile anche nella nuova disciplina della Consulenza tecnica d'ufficio, riformata con il nuovo articolo 473-bis.25. Storicamente (e per prassi consolidata) tra CTU e operatori del servizio vi sono sempre stati contatti, collaborazioni ed anche contrasti, tanto che gli operatori del diritto sovente utilizzavano la consulenza tecnica d'ufficio per contrastare relazioni sfavorevoli egli operatori pubblici.
La nuova disciplina dovrebbe portare un maggior coordinamento tra le rispettive attività, anche perché essa esplicita come, nella sua relazione, il consulente dovrà tenere ben distinti i fatti osservati direttamente dalle dichiarazioni delle parti e dei terzi. Il CTU dunque, dovrà comparare la sua valutazione a quella del servizio, tendendo distinte metodologie e conclusioni, così evitando di “appiattirsi” senza motivazione su posizioni di altri soggetti intervenuti.
Allo stesso tempo il CTU potrà indicare “eventuali specifiche proposte di intervento a sostegno del nucleo familiare e del minore (473-bis.25 ult. comma).
Tale attività sarà svolta di concerto con il servizio sociale intervenuto, il quale potrà essere chiamato a coordinarsi con il perito al fine di applicare nel concreto le soluzioni tecniche suggerite.
La norma che, però, maggiormente incide sull'attività del servizio sociale nell'ambito del nuovo processo familiare è senza dubbio rappresentata dall'art. 473-bis.27 c.p.c., la quale disciplina esplicitamente l'intervento del servizio all'interno del procedimento a tutela dei minori.
Prima dell'introduzione della citata norma l'attività del servizio sociale all'interno del processo civile familiare non era sottoposta ad una disciplina codicistica organica, lo svolgimento dell'incarico ed i relativi poteri erano disciplinati da prassi e giurisprudenza, rendendo così difficile per le difese, ma anche per lo stesso giudice, monitorare l'attività disposta e verificarne l'attinenza al thema decidendum.
L'articolo in esame, invece, prevede espressamente che, qualora voglia disporre l'intervento del servizio sociale, il giudice sia tenuto ad indicarne in modo specifico l'attività che deve essere svolta, fissando altresì i termini entro i quali gli operatori saranno tenuti a depositare una relazione periodica sull'intervento messo in campo.
Sulla relazione depositata le parti potranno prendere una posizione tramite il deposito di memorie difensive.
Come per la CTU, anche la relazione degli operatori dovrà tenere distinte tra loro le dichiarazioni rese dalle parti e dai terzi dalle valutazioni tecniche formulate le quali, ove aventi oggetto profili di personalità dei genitori del minore o di altri soggetti, dovranno essere fondate su dati oggettivi e su protocolli riconosciuti dalla comunità scientifica, da indicare espressamente nella relazione.
Tale disposizione ha lo scopo di evitar relazioni troppo generiche, che mescolino i racconti delle parti coinvolte ai fatti accertati ma, soprattutto, vuole evitare che le valutazioni del servizio non siano proposte su basi scientifiche quando incidano su questioni fondamentali ai fini del decidere, come ad esempio avviene con l'accertamento dei profili personologici delle parti.
All'ultimo comma l'art. 473-bis.25 c.p.c. indica anche come le parti possano prendere visione ed estrarre copia delle relazioni del servizio sociale che siano trasmesse all'autorità giudiziaria, salvo che la legge non disponga altrimenti.
Un ulteriore ambito di intervento del servizio sociale nel nuovo processo familiare è contenuto nella previsione di cui all'art. 473-bis.38 c.p.c., riguardante l'attuazione dei provvedimenti sull'affidamento.
Al sesto comma, infatti, l'innovativa disposizione prevede che il giudice, per l'esecuzione delle proprie decisioni, possa anche ricorrere all'uso della forza, che in tal caso deve avvenire soltanto se assolutamente indispensabile e sotto la vigilanza di personale specializzato, anche sociale e sanitario.
Il servizio sociale, dunque, potrà assumere un ruolo di particolare rilievo nell'attuazione di tutte quelle disposizioni del giudice (si pensi agli allontanamenti familiari o alle sottrazioni) nelle quali potrebbe doversi ricorrere ad azioni coattive, che dovranno necessariamente contemperare la tutela del diritto ad agire con l'interesse del minore a vedere salvaguardata la propria salute psicofisica.
Un accenno merita, infine, l'art. 473-bis.44 c.p.c., inserito nel nuovo capo III del titolo IV bis introdotto con la riforma e relativo alle misure di contrasto della violenza domestica o di genere.
La norma citata, nell'ambito dell'attività istruttoria intrapresa dal giudice, prevede come lo stesso possa incaricare il servizio sociale di compiere accertamenti diretti a tutelare la vittima delle violenze o degli abusi, conferendo dunque al servizio un ruolo di primo piano nel contrasto al fenomeno e dotandolo di poteri di intervento più incisivi.
Se ti "attacchi" al campanello di casa per vedere tua figlia è reato?
La Cassazione ha assolto un padre che si era 'attaccato' al campanello di casa dell'ex per vedere la figlia.
Dunque così si è stabilito che non c'è molestia - e neppure biasimevole motivo come richiesto dall'art. 660 c.p. - per integrare il reato nella condotta del padre che suona con insistenza a casa dell'ex per reclamare il proprio diritto di stare con la figlia.
Tale padre era stato accusato in primo grado di molestie e lesioni in danno della ex moglie e del solo reato di molestie in secondo grado.
Il fatto di essersi recato a casa dell'ex moglie, aver suonato con insistenza il campanello e aver atteso fuori solo per vedere la figlia e portarla fuori con il suo ciclomotore non può essere considerato un biasimevole motivo o un'azione dettata da petulanza, ma solo un modo per far valere il suo diritto di fare il padre.
La sentenza della Corte di Appello, che ha ritenuto di non doversi procedere per il reato di lesioni, ma solo per quello di molestia o disturbo alle persone va quindi annullata senza rinvio perchè il fatto non sussiste.
Queste le conclusioni della Cassazione nella sentenza n. 47396/2022 che sul reato di cui all'art. 660 del codice penale ha avuto modo di ribadire che: "in tema di molestia o disturbo alle persone (art. 660 c.p.), se, per un verso, deve ritenersi la configurabilità del reato anche quando l'agente esercita, o crede di esercitare, un proprio diritto, in modo tale, tuttavia, da rivelare l'esistenza di uno specifico malanimo che si traduce in un mero dispetto arrecato per biasimevole motivo, per altro verso deve escludersi che tale condizione possa essere ritenuta sussistente per il solo fatto che la condotta sia o possa apparire oggettivamente molesta (nel senso di fastidiosa o irritante) a chi la subisce, richiedendosi, invece, che tale sua caratteristica le venga impressa senza alcuna plausibile ragione strumentalmente ricollegabile all'effettivo esercizio del preteso diritto; ragione che può consistere anche nell'intento di rendere manifesta la propria volontà di avvalersi di quel diritto, a fronte di chi non intenda riconoscerlo".
Ovviamente tale conclusione vale anche nel caso che ci si veda costretti - come purtroppo in più penosi casi avviene - ad “attaccarsi” al citofono.
In caso di problemi di accesso con Tuo figlio segnalaci la Tua vicenda al n. di tel. 080.5234543.
Obbligo dell'assegno di mantenimento ai figli:
e se il papà è disoccupato e nullatenente?
I genitori hanno il dovere di mantenere economicamente i propri figli, in misura proporzionale alle rispettive risorse economiche. In sede di separazione, divorzio o cessazione di una convivenza more uxorio, il giudice, per quantificare l'ammontare dell'assegno di mantenimento a favore dei figli, da un lato dovrà tener conto dell'esigenze di quest'ultimi, del tempo di permanenza presso ciascun genitore e del loro tenore di vita, mentre, dall'altro dovrà necessariamente valutare le capacità economiche di ciascun genitore nonchè le loro capacità lavorative. Nel valutare le risorse economiche del genitore, il giudice non dovrà considerare le sole entrate reddittuali bensì l'intero patrimonio comprensivo di eventuali proprietà mobiliari, immobiliari, rendite finanziarie e/o risparmi. Tuttavia, anche il genitore disoccupato, se il giudice glielo ha imposto, è obbligato a versare il mantenimento, poiché il dovere di mantenimento sorge per il solo fatto di aver messo al mondo dei figli e si suppone che una persona, anche se al momento sia priva di redditi, si possa sempre impegnare per trovare un lavoro. In tali casi, l'ammontare dell'assegno di mantenimento stabilito dal giudice sarà minimo ma, in ogni caso, sempre dovuto dal genitore. Dunque, se il genitore in stato di disoccupazione è giovane, non è affetto di particolari patologie fisiche o psichiche ed ha potenzialità specifiche che derivano dalla sua formazione scolastica e/o professionali dovrà tentare in ogni modo di sfruttarle, in modo tale da contribuire al mantenimento dei propri figli. La Corte di Cassazione sul punto ha infatti stabilito il principio secondo cui “il genitore separato e/o divorziato è obbligato a versare l'assegno di mantenimento ai figli anche se disoccupato e “che la mera perdita del lavoro non costituisce oggettiva impossibilità di fare fronte alle obbligazioni economiche” (Cass. civ. sent. n. 39411/2017). La Suprema Corte ha poi precisato che il genitore, in evidente difficoltà economiche, può esimersi dall'adempiere a tali obblighi di mantenimento nei confronti dei figli, senza incorrere in conseguenze sia civili che penali, solo ed unicamente nel caso in cui fornisca una prova rigorosa di essersi attivato nella inconcludente ricerca del lavoro, e, quindi, di aver fatto tutto il possibile per rimediare alla sua condizione, dimostrando, inoltre, di non avere alcun tipo di altra entrata economica. L'incapacità di far fronte a tali obbligazioni economiche da parte del genitore disoccupato oltre a dover essere dimostrata, deve essere quindi assoluta. La semplice perdita del lavoro non è quindi sufficiente per essere esonerati da tali obblighi economici nei confronti della prole, bensì è necessario che il genitore dimostri documentalmente il suo stato di totale incapacità economica o lavorativa nonché le effettive cause che rendono del tutto impossibile il reperimento di una occupazione. Si tratta, comunque, di una prova alquanto difficile da superare, tant'è che recentemente la Suprema Corte ha affermato che “anche la disoccupazione dipesa dal manifestarsi di una malattia non sempre giustifica il venir meno dell'obbligo di mantenimento del genitore nei confronti del figlio” (Cass. pen., Sez. VI, 15 gennaio 2020, n. 6227).
Cassazione penale:
il reato di maltrattamenti in famiglia si delinea anche in presenza di condotte omissive sui figli minori.
Si è ritenuto configurato il reato di maltrattamenti in famiglia art. 572 c.p. anche in presenza di condotte omissive, in un caso in cui il genitore non aveva provveduto ad assicurare al minore, specie se in tenera età, tutte quelle condotte di cura, assistenza e protezione a fronte di esigenze cui il figlio stesso non può altrimenti provvedere, nel caso di specie consistente nell'accertato abituale deficit di accudimento dei figli minori dovuto all'abuso di sostanze alcoliche da parte della madre.
Cass. pen. sez. VI, 24 gennaio 2024, n. 8617.
Per provare la crisi della coppia
si può utilizzare in casa una microspia?
Certamente no.
E' illecito.
Giusto come recentemente stabilito dalla Corte d'appello prima, e dalla Cassazione dopo, che hanno confermato la condanna dell'imputato alla pena di 4 mesi di reclusione (oltre al risarcimento del danno alla parte civile) per il reato di interferenze illecite nella vita privata commesso installando una microspia all'interno dell'abitazione in cui viveva insieme alla ex compagna, con la quale era in corso un procedimento per l'affido del figlio minore. Il movente era da ricondurre, secondo la difesa dell'imputato, nel tentativo di ottenere le prove della manipolazione del minore da parte della madre.
Cass. pen., sez. V, ud. 7 dicembre 2023 ( dep. 27 marzo 2024 ), n. 12713
No al mantenimento della ex che è nelle condizioni di reperire facilmente lavoro.
Cass. Civ. sezione I, 29 febbraio 2024, n. 5242
È escluso l’assegno di mantenimento alla moglie, la quale, tenuto conto dell'età dei figli, avrebbe potuto incrementare con orario pieno il proprio stipendio e potuto cogliere occasioni di avanzamento/conversione professionale migliorative del proprio reddito.
Il richiedente l'assegno di mantenimento è gravato dall'onere di dimostrare che si sia doverosamente adoperato per reperire o migliorare la propria occupazione lavorativa retribuita in maniera confacente alle sue attitudini/capacità, e che quindi la condizione in cui versa non sia da lui stesso causata per inerzia.
BONUS GENITORI IN STATO DI BISOGNO:
DOMANDA E REQUISITI.
Sino al 31 marzo del corrente anno è possibile presentare all’ INPS la domanda per ottenere il nuovo bonus per genitori separati, divorziati e/o non conviventi.
La misura è finalizzata a garantire un contributo ai genitori in stato di bisogno, ossia con un reddito non superiore a 8.174 euro, che nel periodo di emergenza epidemiologica da Covid-19 risultavano conviventi con figli minori o maggiorenni portatori di handicap grave e che, nel medesimo periodo, non abbiano ricevuto l'assegno di mantenimento per inadempienza dell’altro genitore (ex coniuge o ex convivente).
Il bonus spetta laddove l’altro genitore, in conseguenza dell'emergenza epidemiologica, abbia cessato, ridotto o sospeso l’attività lavorativa a decorrere dall'8 marzo 2020 per una durata minima di 90 giorni oppure abbia subito una riduzione del reddito di almeno il 30% rispetto al reddito percepito nel 2019.
La domanda per percepire il beneficio dovrà essere presentata all’INPS, previa autenticazione al portale dell’Istituto, attraverso l’apposito servizio “Contributo per genitori separati o divorziati per garantire la continuità dell'erogazione dell'assegno di mantenimento”, disponibile nella sezione “Punto d’accesso alle prestazioni non pensionistiche”.
Il bonus genitori separati, divorziati e/o non conviventi è corrisposto in un’unica soluzione in misura pari all'importo non versato dell'assegno di mantenimento e fino a concorrenza di 800 euro mensili. Il contributo spetta per un massimo di 12 mensilità tenuto conto delle disponibilità del fondo che ammonta a 10 milioni di euro. Il beneficio sarà erogato da INPS previa verifica dei requisiti di legge a cura del Dipartimento per le politiche della famiglia.
Sui pernottamenti del bambino col papà ostacolati dalla madre.
Nelle separazioni, particolarmente in quelle ove ancora non vi sono provvedimenti provvisori e urgenti disposti dal Giudice, avviene in più casi che la madre immotivatamente ostacola i pernottamenti del bambino col padre.
Tale fenomeno si manifesta ancor più quando il bambino è piccolo, cioè nel corso della prima infanzia che va da 1 a 24 mesi di vita.
La madre può ostacolare o impedire i pernottamenti del bambino col padre?
Certamente no.
E soprattutto in assenza di uno specifico pregiudizio al minore potenzialmente correlato al pernottamento col padre.
Corte di Cassazione e normativa internazionale ai sensi dell'art. 8 della CEDU hanno ormai stabilito che solo ed esclusivamente nei casi di pregiudizio accertato del minore tale limitazione al diritto di incontro (cioè al pernottamento) può essere disposta.
Altrettanto, il pernottamento del bambino col padre è fatto salvo anche nel caso in cui, a dire della madre, " il padre non sarebbe in grado di occuparsene.".
Tale strumentale provocatoria e consueta asserzione, fondata su retaggi di stampo monogenitoriale e su un pregiudizio che confina alla diversità (e alla mancanza di uguaglianza) il rapporto che sussiste fra i genitori, è stata già rigettata dal Tribunale di Milano il 14 gennaio 2015.
In conclusione il pernottamento del bambino presso il padre:
è da considerarsi consono a preservare la relazione genitoriale “avendo come effetto di consentire la sua esplicazione rispetto a momenti e a situazioni fondamentali per la crescita del minore, nell'interesse precipuo di questi”;
in assenza di pregiudizi al minore, va sempre garantito il diritto del medesimo alla bigenitorialità, inteso come diritto ad avere un accesso paritetico ad entrambi i genitori e nel diritto di ciascun genitore ad essere presente in maniera significativa nella vita del figlio nel reciproco interesse senza, però, che ciò comporti “l'applicazione di una proporzione matematica in termini di parità dei tempi di frequentazione del minore”.
Sull'argomento:
- Sentenza Cassazione n. 31902/2018
- Sentenza Cassazione n. 16125/2020.
27 aprile 2022 : la Consulta dichiara STOP all'automatismo del cognome paterno ai figli.
Abbiamo svolto un sondaggio all'indomani di tale dispositivo della Consulta, rivolgendo agli intervistati la richiesta del proprio punto di vista.
La domanda è stata rivolta via watsapp a n. 282 uomini e a n. 318 donne
Età media 49,5 anni
Istruzione livello medio/alto
Coniugati : 40,6%
Separati / Divorziati : 52%
Single : 7,58%
Con figli : 77,89%
Il sondaggio ha riportato il seguente esito:
sono pervenute 493 risposte, in larga parte commentate, non poche delle quali piuttosto.. “colorite”.
In ogni caso, la stragrande maggioranza degli intervistati (molti dei quali perplessi) è risultata favorevole.
ADESSO ATTENZIONE !!
Coloro che già si fecero promotori ieri ( 2014 ) dello STOP all'automatismo del cognome paterno ai figli, giusto come disposto oggi dalla Consulta, sono gli stessi che tuttora continuano a sostenere la necessità di introdurre anche un altro "diritto", cioè :
il "diritto" dei figli di poter scegliere, a diciotto anni, il cognome del padre o della madre.
Tale "diritto" viene rivendicato in particolare dal 2014, ed è sostenuto con forza nel nostro Paese da certa politica di "genere" ambigua, confusionaria e “tendenziosa” - nonchè incurante della migliore crescita psico fisica dei nostri ragazzi - impegnata, in realtà, a compromettere il fondamentale valore delle famiglie : da quelle, in particolare, tradizionali, a quelle "nuove" c.d. atipiche, che caratterizzano ormai la società italiana.
Perchè possiate farvi un’opinione quanto più completa anche sulla fondatezza della richiesta di introduzione - non auspicabile - nel nostro ordinamento di tale "diritto", vi invito di seguito alla lettura del mio breve critico intervento, già pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno l' 11 marzo del 2014.
Giancarlo Ragone, Presidente Associazione "Papà Separati dai Figli".
La Gazzetta del Mezzogiorno del 29 Marzo 2022
Tribunale di Bari
“ E’ notorio, che dovere primario di un buon genitore affidatario o collocatario della prole, è quello di non allontanare il figlio dall’altra figura genitoriale; quali che siano state le ragioni del fallimento dell’unione, ogni genitore è responsabile e consapevole dell’insostituibile importanza della presenza dell’altro genitore nella vita del figlio, deve saper mettere da parte le rivendicazioni e conservarne l’immagine positiva agli occhi e nel cuore del minore, garantendo il più possibile le frequentazioni dell’altro genitore con la prole minorenne. L’attitudine del genitore ad essere un buon educatore ed a perseguire primariamente il corretto sviluppo psicologico del figlio si misura alla luce della sua capacità di realizzare un siffatto risultato non a parole, ma in termini concreti. E nel caso di specie, se si guarda appunto ai risultati concreti, il giudizio sulla condotta di molti genitori, in particolare collocatari dei figli, purtroppo non può che essere negativo.
La presente severa decisione dei Giudici della Prima Sezione Civile del Tribunale di Bari sarà stata certamente assunta anche non senza certa sofferenza degli stessi Giudici; confidiamo nell’efficacia di tale provvedimento, che ci auguriamo potrà dissuadere l’esercizio di riprovevoli analoghi comportamenti, dettati in particolare a causa di una malevola cultura e mentalità di stampo monogenitoriale che, come da noi inutilmente ed in più casi pubblicamente reclamato, restano al momento penosamente assai diffusi. “.
Giancarlo Ragone, Presidente Associazione “Papà Separati dai Figli-Puglia”.